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Francesco Calzolaio Tra gioco d’archivio e riflessione sul potere: le “vite infami” e Michel Foucault Review of Michel Foucault, La vita degli uomini infami, Il Mulino, Bologna 2009 (92 p.) L’aggettivo italiano “infame” è termine etimologicamente fecondo: se da un lato esso marca l’uomo dalla fama compromessa, il maledetto che ha perso la cittadinanza tra i suoi per essersi macchiato di una colpa indelebile, dall’altro il suo etimo ci offre un secondo significato come composto dei termini latini “in” e “fama”, calco dal greco phēmē, “voce”, in stretta relazione con phanai, “parlare”. Infame dunque etimologicamente non è solo il criminale o l’individuo che porta con sé il marchio della riprovazione sociale, ma anche il “senza racconto”, l’uomo di cui non si parla se non per esecrarlo, e il “senza voce”, l’uomo che non si-parla, che non ha possibilità di farsi sentire. Tali, due volte infami perché reietti e al contempo oscuri, sono gli individui di cui si occupa Michel Foucault nel breve scritto La vita degli uomini infami, eco di un desiderio personale del filosofo che non prese mai corpo: la pubblicazione di un’antologia di biografie di internati che egli reperì negli archivi della Bastiglia e dell’Hôpital Général, estrapolandole da documenti manoscritti di polizia e lettres de cachet risalenti al secolo 1660-1760. Per queste biografie di “uomini infami”, che il filosofo intendeva pubblicare così come reperite in archivio al fine di conservarne la peculiarità dello stile e l’intensità dell’esposizione, La vita degli uomini infami era pensata come prefazione. Di fatto non fu mai tale giacché l’antologia non venne pubblicata e le biografie che lo studioso aveva tratto dai manoscritti vennero destinate ad altre opere e ad altre pubblicazioni, mentre La vita, che di questi frammenti d’archivio raccoglie solo una minima parte, uscì in veste di articolo nel 1977 per Les cahiers du chemin e poi nei Dits et écrits pubblicati da Gallimard nel 1994. Per ciò che concerne l’edizione italiana si è invece atteso fino al 2009, quando la casa editrice Il Mulino di Bologna ha curato la presente. Considerando la particolare natura dell’opera risulta chiaro come essa occupi, nella vasta e articolata produzione di Foucault, un posto speciale: non si tratta di uno dei sistematici studi che lo hanno reso celebre, «non è un libro di storia», come chiarisce l’incipit del testo, ma piuttosto una raccolta di esistenze minime che Foucault ha pazientemente cercato negli archivi e poi ordinato «come in un erbario» (p. 9). Unico motore del progetto il suo gusto personale per l’estetica letteraria della burocrazia seicentesca e il fascino intenso che lo studioso confessa di provare per le brevissime biografie dei condannati, all’interno delle quali sentiamo agitarsi le forze, le tensioni, i drammi di tutta una vita altrimenti destinata all’oblio. La vita degli uomini infami vuole essere un contenitore di intensità nato per offrire agli interessati l’esperienza lirica, tanto apprezzata dall’autore, della scoperta di questi violenti frammenti biografici: a fianco del Foucault di Sorvegliare e punire, erede del metodo cartesiano e del positivismo ancora presente nello strutturalismo, trova dunque posto ne La vita un Foucault più intimo, appassionato lettore e raccoglitore di vite-lampo singolari. La compresenza dei due è segnata anche a livello testuale nella prima parte dello scritto, in cui incontriamo la significativa rinuncia ad ogni istanza positiva: ho a lungo rimuginato soltanto sull’analisi; ho preso i testi nella loro asciuttezza; ho ricercato la loro ragion d’essere […]; ho cercato di capire […]: ho cercato la ragione […]. Ma le emozioni intense di quei primi momenti che mi avevano motivato rimanevano al di fuori (pp. 11-12). Nessuna metodologia dunque a sovrintendere il progetto, nessun intento di analisi: solo il gusto di un uomo, lo stesso Michel Foucault, a scegliere quali esistenze estrapolare dagli ormai antichi manoscritti d’archivio perché siano portate a nuova vita. Ad affiancare il suo gusto personale, un sistema di casualità guidata da due grandi discriminanti: che si tratti di uomini realmente vissuti e che si tratti di uomini infami. E allora è tutta una carovana di preti scandalosi, di apostati, di pederasti, di ubriaconi molesti, di mariti violenti a far da protagonista ne La vita, una carrellata di individualità particolari che suscitarono l’interesse del filosofo francese in virtù del loro apparire “mostri” agli occhi del potere che, dopo un giudizio sommario, li trovò deformi e li soppresse. Siamo insomma, come potrebbe sembrare da quanto detto fin’ora, di fronte a un testo tutto sommato di carattere privato, un testo «di gioco» o «di una piccola mania che si è creata il suo sistema» (p. 13)? Se in parte è così, e a dircelo è Foucault stesso, d’altro canto è anche vero che La vita degli uomini infami va collocata nell’ampio orizzonte di interessi del Foucault degli anni settanta, di Sorvegliare e punire e della Microfisica del potere: a fare da sfondo all’opera c’è lo studio dei processi di costruzione del sé e della nascita dell’istituzione detentiva, che rappresenta la principale ragione di interesse per il lettore contemporaneo. Sono proprio questi i grandi temi de La vita, che Foucault affronta qui con la consueta precisione pur nel limite di uno scritto pensato come semplice prefazione e che abbiamo visto essere, per molti versi, atipico e in tono minore. Manca la ricerca di scientificità garantita da un metodo, ma nelle stringate biografie d’archivio che Foucault ci offre lo studioso ritrova e recupera tutti gli elementi caratteristici della sua riflessione degli anni settanta: i meccanismi d’inquisizione e di condanna utilizzati dalla giustizia regia nel Seicento miravano, così come quelli di polizia di Sorvegliare e punire, alla costruzione di una specifica natura mostruosa per il reprimendo, tramite il ben noto processo linguistico di delazione, inquisizione, confessione, condanna. Ad affascinare Foucault sono le incredibili sproporzioni che costituiscono l’ossatura della giustizia seicentesca, che per ogni processo allestisce un teatro denso di figure grottesche: basta uno scatto d’ira da parte dell’accusato perché esso si trasformi, nelle parole del delatore e del potere – complice anche il fiorito e barocco linguaggio dell’epoca –, in un deforme perverso capace del peggiore dei crimini; ancora, in virtù dello stesso meccanismo di costruzione del sé, il delatore è sempre all’accusato speculare, è un supplice, una vittima assoluta, un uomo probo, laddove il criminale è un mostro e un pervertito. Sproporzione tra crimine commesso e percezione/costruzione linguistica dello stesso, sproporzione tra abiezione del criminale e pretesa di purezza del delatore, ma anche sproporzione tra punito, un uomo del popolino colpevole spesso di crimini minimi, scatti d’ira, ubriachezza, e potere chiamato a punire, quello infinito del sovrano di Versailles. Leggendo La vita ci troviamo proiettati in un mondo nel quale il potere del sovrano è ancora percepito come compresenza di magico e politico, e i rapporti di domanda e risposta che regolano l’amministrazione della giustizia hanno il lessico della religione: un innocente, il delatore, supplica un’entità onnipotente, il sovrano, pregandola di fare giustizia e di schiacciare il mostro. Per farlo deve adoperare un linguaggio speciale e rituale, il linguaggio della corte, l’unico in grado di smuovere il dio-re e di creare il criminale-mostro: ne La vita si fa giustizia come si scaglia il malocchio su qualcuno, come si evoca una divinità onnipotente, amata e temuta al contempo, per asservirla ai propri scopi. La posta in gioco in questo teatro dell’assurdo, che pure ha retto la giustizia francese per un secolo, è la vita di un uomo, uno di questi “uomini infami” di cui Foucault offre frammenti di biografia. Di essi abbiamo notizia solo perché tanto sfortunati da ricevere le attenzioni del potere, perché denunciati, inquisiti, sommariamente puniti e pertanto presenti nei registri della polizia e nelle lettres de cachet: il loro incontro-scontro diretto con il potere assoluto e arbitrario di punire del sovrano è stato tanto forte da bruciarli, ma è proprio in virtù di questo rogo, tanto intenso da inviare fino a noi la propria luce, che Foucault ne trovò traccia negli archivi. Ultimo e più incredibile tra i contrasti è allora quello di una condanna a morte che, nel momento in cui è pronunciata, salva dall’oblio, portando a massima intensità una vita altrimenti destinata a passare inosservata. Fu probabilmente proprio questo paradosso a stupire Foucault come appassionato lettore prima ancora che come studioso, e a spingerlo alla raccolta di frammenti di vite-lampo, vite delle quali, risulta evidente leggendo l’opera, egli dovette sentire con incredibile veemenza l’intensità nel momento quasi sublime, come rileva nella postfazione all’edizione italiana Remo Bodei, del loro incontro con il potere. |