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Gianna D’Agostino Abitare la distanza, il bel rischio della scrittura Compte-rendu de Michel Foucault, Il bel rischio, Cronopio, Napoli 2013 (86 p.) In chiusura dell’introduzione al suo L’archeologia del sapere, uscito nel 1969, Michel Foucault pone alcune frasi che devono aver spiazzato i suoi primi lettori. Descrive il discorso che sta per intraprendere come un tentativo situato in uno spazio bianco, dai contorni che cambiano nel momento stesso in cui si definiscono e nel quale anche l’autore di situa non per sostenere la vanità dei discorsi degli altri, ma per misurare la distanza che lo separa da essi: «Più d’uno, come faccio senz’altro io, scrive per non avere più volto. Non domandatemi chi sono, e non chiedetemi di restare lo stesso: è una morale da stato civile; regna sui nostri documenti. Ci lasci almeno liberi quando si tratta di scrivere»[1]. La pubblicazione della conversazione del 1968 con il critico letterario Claude Bonnefoy, in originale nel 2011 e tradotta recentemente in italiano per i tipi di Cronopio con il titolo Il bel rischio, getta nuova luce su quelle frasi. Ciò che Foucault cominciava a mostrarci già nell’introduzione all’Archeologia è quello che, nella conversazione con Bonnefoy, aveva definito il «rovescio del ricamo» (p. 25), cioè il lato invisibile della sua esperienza della scrittura. Esso acquista nelle sue parole la fisionomia di una vera e propria palinodia. L’autore forse più estraneo al biografismo parte proprio da un particolare biografico privato per descrivere il proprio rapporto con la scrittura: il sistema di valori nel quale Foucault si trovò immerso fin da bambino fu quello di una famiglia di medici di provincia in cui la pratica della scrittura era sistematicamente svalutata. Il medico, infatti, non scrive ma ascolta e palpa per arrivare a una verità sul corpo, cioè per eseguire una diagnosi. La razionalità medica è dunque il rovescio della scrittura. Foucault narra che, per apprezzare l’atto dello scrivere, dovette perdere il gusto per la parola: a trent’anni, trovandosi in Svezia e non riuscendo ad esprimersi in una lingua sconosciuta, poté infine riconoscere nella scrittura la propria «patria reale» (p. 18). Non c’è niente di sacro, dunque, nell’atto dello scrivere per Foucault, che dichiara fin da subito di essere quanto mai lontano dalla tradizione che da Mallarmé in poi fa della scrittura un «monumento all’essere del linguaggio» (p. 15). Quella cui il filosofo fa riferimento è dunque una pratica che si situa nel rovescio dell’analisi medica, ma è a sua volta diagnosi. Con la metafora del pennino come bisturi, Foucault si descrive come un anatomista che compie un’autopsia. Se il medico cura, colui che scrive cerca di svelare post mortem il male attorno al quale si è organizzata una vita. Il fatto stesso di scrivere postulerebbe la morte degli altri come ipotesi di lavoro e avrebbe a che fare con la morte in generale. Foucault rifiuta il mito soggettivistico dello scrivere per far rivivere; il contrario della morte non sarebbe infatti la vita, ma la verità. Ritroviamo qui espresso in altri termini il fulcro del metodo genealogico foucaultiano: scrivere a partire dalla morte dell’altro consiste «nel metter in luce attraverso l’incisione della scrittura qualcosa che è la verità di quanto è morto» (p. 30). Ci avviciniamo in questo modo a quanto era dichiarato anche nell’introduzione all’Archeologia. Definendosi, sulla scorta di Barthes, uno scrivente e non uno scrittore, Foucault descrive la finalità fondamentalmente denotativa della sua scrittura: mostrare qualcosa che altrimenti rimarrebbe nascosto. Situarsi in quello spazio bianco dal quale parliamo, cioè il diaframma fra il corpo e la scrittura, ma anche fra il nostro discorso e quello dell’altro, è allo stesso tempo metodologia e finalità della scrittura foucaultiana: «Vorrei far apparire ciò che è troppo vicino al nostro sguardo perché possiamo vederlo. […] Restituire densità e spessore a ciò che noi sentiamo come trasparenza» (p. 55). Si tratta di designare un punto cieco, rifiutando ogni effetto di riconoscimento con le opere e gli autori del passato e non avendo come finalità quella di costruire un’opera, ma quella di dire delle cose. Ciò è possibile solo abitando la distanza tra sé e l’altro: misurare la differenza rispetto a quello che non siamo permette di perdere il proprio volto, la propria esistenza, lungi dal voler fare di essa un monumento. Solo la pratica della scrittura permette questo dislocamento rispetto a quanto è morto, alla morte stessa. Anche la verità è presa, dunque, in questa distanza: ciò che la scrittura rivela non è la verità di ciò che oggi non vive più com’era quando esisteva, ma la verità di ciò che ci separa dalla morte e che fa sì che non siamo morti mentre scriviamo. Solo partire dal presupposto della morte dell’altro permette a Foucault una diagnosi che sia il più possibile razionale, analitica e serena. In questo sta probabilmente il fastidio di quegli intellettuali suoi contemporanei che rintracciavano una particolare violenza nella sua scrittura: è il disappunto nel vedersi trattare come già defunti. Nella parte centrale della conversazione, la pratica della scrittura si configura come un vero e proprio lavoro su se stessi. Foucault rintraccia nella scrittura un che di angoscioso: la necessità di esaurire la lingua, di per sé inesauribile, nella finitezza del discorso è infatti un compito impossibile. Dunque la scrittura, per il filosofo, non è un’attività piacevole e gratuita: essa appare, nella quotidianità dello scrivente, piuttosto come un obbligo. L’obbligo di scrivere si presenta sotto varie forme fino a informare di sé l’intera esistenza. Scrivendo, spiega Foucault, diamo una specie di assoluzione alla nostra esistenza, il gesto della scrittura dà significato a tutte le altre attività della giornata: «Non è la scrittura che è felice, è la felicità di esistere che è sospesa alla scrittura» (p. 49). Ma l’obbligo di scrivere si presenta anche come obbligo di perdere il proprio volto. Situarsi nello spazio bianco tra il corpo e la scrittura è un gesto accompagnato dalla necessità di tradurre ed esaurire quel corpo insieme all’intera esistenza nel brulichio della parola scritta. Si tratta di un annullamento, o di una mortificazione di sé. Quello di obbedire a tale obbligo ineludibile e quotidiano, conclude Foucault, è forse l’unico piacere rintracciabile nella scrittura. A questo punto è più facile capire perché Foucault abbia sempre rifiutato quella «morale da stato civile» che lo avrebbe obbligato a restare sempre uguale a se stesso: la scrittura gli si presenta, infatti, come un movimento precario e incerto di trasformazione del sé, dunque impossibile da fissare o decidere prima di avere intrapreso quello che Foucault definisce un compito, un’impresa, un lavoro. Scrivere non per dimostrare un’idea che già abbiamo, ma per permettere a qualcosa di sconosciuto di prendere forma nello spazio bianco dal quale scriviamo, e nel quale è necessario perdersi, è il bel rischio che va accettato nel momento in cui si intraprende questo compito. Un simile approccio a quella peculiare attività del linguaggio che è la scrittura è significativamente convergente con la riflessione che Foucault intraprenderà circa dieci anni più tardi riguardo alle “tecnologie del sé”, definite come quelle attività che permettono, attraverso esercizi compiuti sul proprio corpo e la propria anima, di operare una trasformazione di se stessi[2]. Uno dei protagonisti di questa disamina sarà infatti proprio la scrittura: da Epitteto a Seneca, essa è descritta come un esercizio di incorporazione dei discorsi veri, un atto attraverso il quale ci si appropria di quello cui si sta pensando, un’abitudine quotidiana attraverso la quale la cosa cui si sta pensando è condotta ad insediarsi nell’anima[3]. Interessante, in questo senso, che Foucault descriva lo sviluppo del proprio pensiero riguardo a un ambito – per esempio quello della rappresentazione in età classica – come qualcosa che si dipana e si chiarifica all’autore stesso nel momento in cui egli intraprende il lavoro della scrittura, non prima. È dunque una tecnica e insieme un’etica della scrittura che prende forma durante la conversazione di Foucault con Bonnefoy e ne fa l’elemento di un esercizio rischioso da praticare per se stessi, un esercizio che, se portato fino in fondo, ci renderà diversi da quello che eravamo prima di intraprenderlo: La scrittura consiste essenzialmente nell’intraprendere un compito grazie al quale e alla fine del quale potrò trovare per me stesso qualcosa che inizialmente non avevo visto. […] Scopro quello che devo dimostrare solo nel movimento con cui scrivo, come se scrivere fosse proprio diagnosticare quello che volevo dire nel momento in cui ho cominciato a scrivere. (p. 31)
[1] M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, Rizzoli, Milano 1971, p. 14. [2] Cfr. Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault, a cura di L.H. Martin, H. Gutman e P.H. Hutton, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 11-47. [3] M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano 2003, in particolare la Lezione del 3 marzo 1982, Seconda ora, pp. 314-320. |