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Ilaria Fornacciari Storicità della visione e stilizzazione dell’esistenza Réflexions autour de Joseph J. Tanke, Foucault’s Philosophy of Art. A Genealogy of Modernity, Continuum, New York 2009 (222 p.) 1. Foucault’s Philosophy of Art si apre con quella che potremmo definire l’analisi più accurata della descrizione foucaultiana di Las Meninas di Velázquez. Tanke decide di tralasciare l’imponente dibattito nato intorno a quella che Mitchell, proprio pensando a Le parole e le cose, chiamava un’“ipericona” (assieme alla wittgensteiniana anatra-coniglio, e al Laocoonte di Lessing[1]), e procede in aderenza al testo, scomponendo gli elementi compositivi di Les suivantes e rintracciandovi di volta in volta gli elementi costituitivi delle soglie epistemiche dettagliate nel corpo dell’opera. Ripercorrendo brevemente la descrizione delle episteme storiche, Tanke richiama la nostra attenzione sulla loro dimensione propriamente visiva, indicando nel quadro gli elementi che, all’interno della rappresentazione, creano rotture e indicano sistemi di ordine altri. Ad incrinare una lettura del dipinto come emblema o “monumento” dell’età classica, con il suo gioco di pura rappresentazione, avremmo così lo specchio come sopravvivenza della similitudine e l’attività unificatrice dell’osservatore (viewer) come anticipazione della funzione dell’uomo indicata nell’analitica della finitudine. L’eterogeneità propria delle dimensioni del visibile e del dicibile è quindi, secondo tale analisi, il marchio metodologico che mostra il carattere storico e mai definitivo della loro messa in ordine, proponendoci una lettura di Le parole e le cose come narrazione delle differenti modalità che hanno temporaneamente ricongiunto tale frattura (gap), determinando forme differenti di esperienza. 2. Le ragioni che giustificano la visione organica o di insieme in cui saranno collocati gli interventi e le prese di posizione talvolta marcatamente contestuali delle varie incursioni critiche di Foucault nei territori della storia dell’arte e della creazione sono presentate nell’introduzione dello studio. Tale modus operandi è rivendicato da Tanke come strategico; il saggio, infatti, non vuole restituire una ricostruzione più o meno completa dell’approccio di Foucault all’arte plastica (visual art), ma si propone e piuttosto di «metterci in grado di scoprire e contestare i limiti della nostra stessa esperienza», attraverso un’analisi che coniuga il carattere genealogico del progetto con una metodologia di tipo archeologico. Dinanzi alle stimolanti riflessioni sul concetto di “rottura”, in cui Tanke lega gli strumenti d’analisi estratti dalla conferenza su Manet[2] (letta come una dissezione delle convenzioni artistiche che si trovano alla base della rappresentazione) con la concezione della pittura come «passaggio di forze produttive della storia», estratta dal testo su Rebeyrolle[3], ci troviamo però a più riprese a chiederci quale tipo di articolazione sia effettivamente proposta tra un’archeologia della visione e un’archeologia della pratica pittorica. Tanke, infatti, sembra talvolta passare dall’una all’altra senza definirne chiaramente i rapporti. Sullo stesso piano sembrano allora giocare un’archeologia che, «definendo il suo livello d’analisi, […] ispeziona queste nozioni [influenza, tradizione, sviluppo, evoluzione, spirito e opera] per mostrare come, una volta liberi da esse, la visione potrebbe funzionare in modo diverso» (p. 55), e un’analisi storica che ha un «approccio alla pittura che evita le trappole, parlando non di stile, genio, evoluzione o sviluppo, ma delle operazioni compiute da singole opere d’arte sulle convenzioni della pittura» (p. 56). Ma in che modo avvengono le interazioni tra questi due piani? Una possibile composizione potrebbe essere rintracciata nel seguente passo, in cui ritroviamo la griglia di analisi che l’autore ha ricostruito a partire dall’analisi di Las Meninas e che vede come elementi portanti: la posizione dell’artista; la posizione dell’osservatore; l’opera come evento nel campo visivo. Sarà questo, in effetti, lo schema che ritroveremo anche nella trattazione degli altri testi foucaultiani (su Rebeyrolle, Fromanger, Duane Michals) e che ci guiderà nel tracciare i caratteri peculiari della configurazione della pratica artistica nella modernità. One instead examines how a particular canavas situate itself with respect to the historical nexus of practices that make it possible. Such an approach, extrapolating from the domains described by Foucault, allows one to analyze a canavas in terms of the ways of seeing that it makes possible or denies, the position it assigns to the viewer, the historical position required on the part of the artist, the theoretical reflections it gives rise to, and the transformations the work inaugurates in the visible field. (p. 61) Per quanto tale schema si dimostri senza dubbio efficace nel restituire una visione omogenea dei differenti momenti delle riflessioni foucaultiane sull’arte plastica, non possiamo tuttavia non chiederci quali effetti potrebbe avere l’immediatezza che ne deriva. Tale questione si porrebbe, da un lato, per una critica dell’arte visiva che potrebbe sentirsi autorizzata a parlare di rotture epistemiche nel campo dell’esperienza visuale di una data cultura, rispetto a qualsivoglia prodotto artistico che ne problematizzi le convenzioni; dall’altro, e in senso maggiormente storiografico, siamo persuasi (e l’Archéologie de la vision di Gérard Simon[4] ci sembra possa valere da testo di riferimento in questo senso) che al livello di un’analisi archeologica, le interazioni tra la storicità della visione e la storia delle convenzioni che strutturano la produzione artistica mettano in campo questioni di rapporti tra differenti attori. In tal senso, nel solco del lavoro di Simon sulla storia dell’ottica, potremmo iscrivere anche le analisi più recenti di Jonathan Crary, che mostrano come tra visione e presentazione visiva si formino nodi complessi che mettono in primo piano la questione del dispositivo[5]. È fuor di dubbio che se ci atteniamo alle riflessioni di Foucault, l’archeologia storica della pratica pittorica si presenta sempre come ipotetica e marginale, come un tentativo più volte ripreso per essere più volte abbandonato (notorio è il caso del libro su Mantet, promesso alle edizioni Minuit; ma potremmo anche indicare lo schema per un’archeologia della pittura, contenuto nella parte finale di L’archeologia del sapere: Archéologies autres; oppure l’apertura verso un’analisi della funzione-autore all’interno dell’arte plastica proposta nella famosa conferenza Qu’est-ce qu’un auteur ?, e così via); tuttavia, prendendo in esame proprio la lettura foucaultiana di Panofsky, che Tanke utilizza per indicare come obiettivo della pratica archeologica un «punto di vista dissociato», si comprende come, in realtà, la questione del rapporto tra un’analisi storica della visione (nel senso di rapporti tra il vedere e il dire che strutturano una determinata cultura) e un’archeologia dell’arte plastica sia disegnata con una certa complessità. A partire, inoltre, dalla caratterizzazione dell’archeologia foucaultiana come la ricerca di un «punto di vista dissociato», ci imbattiamo in quel tipo di difficoltà che ossessiona immancabilmente ogni studio che abbia a che fare con i complessi rapporti tra visione e linguaggio, ovvero nell’impossibilità di specificare un linguaggio analitico sulla visione e differenziarlo da quello metaforico, proprio nel territorio in cui i due tendono a collidere. Il pericolo cui tale difficoltà espone è quello di tematizzare l’irriducibilità del figurativo al discorsivo, mantenendo di fatto una continuità dei privilegi di quest’ultimo sul piano metodologico. Per ritornare al testo su Panofsky, ci sembra importante sottolineare in tal senso che Foucault, nel 1967, celebrando la comparsa della traduzione francese di due lavori dello storico d’arte, non auspica un uso delle «nozioni costituite nell’analisi delle regolarità discorsive per descrivere schemi riscontrati nella storia dell’arte» (p. 55), come sostiene Tanke, ma sottolinea che proprio quella nozione di forma che stava dominando le analisi della linguistica e delle scienze sociali doveva la propria comparsa ad una certa tradizione della storia dell’arte (illuminante, e quanto mai problematico in relazione all’uso di tale nozione, risulta, in questo senso, il testo su Cassirer del 1966[6]). Osservare il funzionamento di tale nozione nelle analisi delle interazioni di elementi storici reali avrebbe mostrato come gli sviluppi cui aveva dato luogo nelle scienze del linguaggio, in quanto studio delle possibilità linguistiche, ne avessero minato le caratteristiche di mobilità e di articolazione. Ciò che Foucault auspica, allora, riflettendo sui problemi metodologici che sta incontrando nella stesura di L’archeologia del sapere, è la possibilità di un’analisi che tenga conto non solo delle regolarità rintracciabili in un dato sistema storico-culturale, ma che riesca a restituire anche il carattere produttivo delle interazioni tra sistemi differenti di una data cultura, rimanendo nell’immanenza degli elementi reali di tale cultura (i discorsi veramente pronunciati). In effetti, è a proposito e in risposta a una tale difficoltà di ordine preliminarmente metodologico, che Deleuze, nelle riflessioni storiografiche del suo Foucault[7], indica la necessità di una terza dimensione (tra il dicibile e il visibile), quella del potere, che vedrà la propria comparsa nell’analisi genealogica. Di conseguenza, sebbene la volontà di coniugare riflessioni di carattere eterogeneo ci sembri un’operazione che trova senza dubbio la sua ragion d’essere nell’obiettivo critico dello studio di Tanke, non possiamo non pensare che l’analisi dei vari momenti, degli attriti, dei “passi falsi” e dei ripensamenti sia particolarmente significativa. Il fatto di indagare questi interventi nella loro dispersione non potrà, è vero, restituirci una visione sistematica dell’approccio foucaultiano all’arte o alla visibilità, non ci fornirà alcuna filosofia dell’arte o metodo per la trattazione delle opere plastiche, ma potrà per lo meno sganciarci da discussioni quali ad esempio il formalismo o meno dell’approccio di Foucault nella conferenza su Manet, e aprire questioni che abbiano un respiro differente. 3. Lo “sguardo archeologico” teso a reperire i caratteri peculiari della modernità, che Tanke ricostruisce nei primi due capitoli dello studio, funziona in seguito da chiave di lettura per l’analisi del saggio di Foucault su Magritte, che viene dunque inserito in un rapporto di continuità metodologica con l’analisi dedicata a Manet. Nonostante Ceci n’est pas une pipe non si concentri più sugli aspetti formali del dipinto, e sebbene la cronologia che situa la rottura della modernità subisca variazioni, entrambe queste escursioni di Foucault nel dominio della pittura hanno tuttavia come fine di mostrare le differenti strade che hanno portato la pittura a superare il destino della rappresentazione nel suo divenire moderna. Nel caso di Magritte, l’analisi tratterà del rapporto tra la produzione pittorica e il reale, e la via perseguita sarà denominata “pittura non-affermativa”. Tanke, considerando la continuità con le altre prese di parola di Foucault intorno all’arte plastica, farà di questa definizione il paradigma della rottura della modernità. Secondo tale griglia, la tensione tra la separazione degli elementi linguistici da quelli plastici e l’equivalenza di somiglianza e affermazione, è il presupposto culturale che sarà giocato e destrutturato nella produzione artistica della modernità. Tali elementi sono messi alla prova in vario modo: nella pratica pittorica di Klee (uso equivoco di segni linguistici e forme plastiche); nella produzione di Kandinski, con il suo processo di dissociazione della somiglianza dalla referenza; sino ad arrivare alle sperimentazioni della pop art (la serie Campbell, Campbell, Campbell che, per Foucault, preannuncia il destino dell’espressione artistica nella famosa ultima frase del saggio su Magritte). Tale excursus sulle tensioni che alimentano la produzione artistica della modernità ci conduce inoltre alla questione genealogica del saggio: What becomes of thought, emotion, passion, and the body in this new, post-representational space where images can be conjured up from nothing? To think through the implications of modern visual art is to examine the type of subjectivity entailed in its reception and production. (p. 122) Attraverso l’analisi degli scritti di Foucault dedicati alla Peinture photogenique[8] di Gérard Fromanger e al fotogragfo statunitense Duane Michals[9], Tanke ci guida verso una concezione più specifica della questione dell’evento in ambito visivo. Tali interventi, inoltre, aprono sulla questione della produzione artistica contemporanea in quanto operazione etica, rispecchiando la rinnovata attenzione critica del filosofo rispetto alla soggettività. Ad essere valorizzata in tal senso è la nozione di “pensiero a-categoriale”, sviluppata nello scambio con Deleuze, che ci permette di concepire la produzione artistica come terreno privilegiato di analisi della costruzione delle forze formatrici del sé (self). Tale piano di riflessione prevede la messa a margine dell’apparato filosofico inaugurato dal platonismo (che, nella recensione di Foucault a Différence et Répétition e a Logique du sens[10], è descritto come un sistema che permette di pensare le differenze come differenze, ma di concepirle sull’identico, in accordo con la fondamentale somiglianza con il reale), attraverso un’operazione etica. L’accento sull’etica come esercizio di soggettivazione apre all’ultimo capitolo dello studio che, ripercorrendo i legami intrecciati tra bios, verità ed etica ne Il coraggio della verità, e attraverso la valorizzazione della performatività del gesto cinico come categoria trans-storica, ci propone una lettura dell’arte moderna come ricerca di una parrhesia che implica la dimensione visiva. Attraverso una rapida ricostruzione di alcuni dei passaggi principali del progetto di indagine storica dei rapporti tra soggettività e verità sviluppato da Foucault negli ultimi corsi al Collège de France, l’obiettivo di Tanke è cercare le basi per rivendicare una concezione dell’arte moderna come dispositivo critico, «truth-speaking device». Le riflessioni di Foucault, nella famosa lezione del 29 febbraio 1984, sul legame privilegiato tra stile di vita e manifestazione della verità del quale l’arte moderna si farebbe portatrice, sono allora inserite nell’ambito dell’attenzione alle diverse accezioni della nozione di askesis nel mondo classico e nella modernità. In tal senso, sarà la fondamentale indistinzione tra vita e opera a sostenere il ruolo critico e politico della pratica artistica, che, declinata come “parrhesia visuale” (la cui costruzione per analogia, come mostra Martin Jay, rimane senza dubbio problematica[11]), romperà con la divisione tra l’ambito estetico e quello morale e cognitivo caratteristica del soggetto post-cartesiano. L’asse di analisi che la conclusione di questo libro – che consideriamo un testo di riferimento per i rapporti tra Foucault e l’arte plastica – lascia a margine, ma che ci sembra tuttavia funzionare in modo implicito nell’ultima parte, riguarda un ipotetico punto di articolazione tra i due momenti che abbiamo delineato nella nostra lettura. Si tratta della possibilità, attraverso la valorizzazione del carattere evenemenziale della pratica artistica (che emerge negli scritti foucaultiani sull’arte degli anni 70, ben analizzati nel lavoro di Tanke), di far giocare gli strumenti analitici del momento archeologico (ovvero, in particolare rispetto alla dimensione visiva, l’ambizione di articolare una pluridimensionalità di sistemi di ordine nel loro carattere eterogeneo e produttivo) con il ruolo della praticabilità politica delle immagini nei processi di soggettivazione. Tale interrogativo, per quanto vasto, si presenta a nostro avviso sempre di più come una dimensione imprescindibile per un’ analisi che non si accontenti di situarsi come “iconoclasta” rispetto alla storia dell’arte o alla critica artistica contemporanea, ma che, appoggiandosi alla fragilità dell’oggi, voglia aprire al ruolo politico dell’espressione artistica nell’ontologia di noi stessi.
[1] Cfr. W.J.T. Mitchell, Iconology. Image, Text, Ideology, University of Chicago Press, Chicago 1986, p. 158. [2] M. Foucault, La peinture de Manet, éd. M. Saison, Seuil, Paris 2001. [3] M. Foucault, La force de fuir, in «Derrière le miroir», n. 202, 1973, pp. 1-8 (ripreso in Dits et écrits, n. 118). [4] G. Simon, Archéologie de la vision. L’optique, le corps, la peinture, Seuil, Paris 2003. [5] J. Crary, Techniques of the Observer. On Vision and Modernity in the Nineteenth Century, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1990; Suspensions of Perception. Attention, Spectacle and Modern Culture, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 2000. [6] M. Foucault, Une histoire restée muette, in «La Quinzaine Littéraire», n. 8, 1966 (ripreso in Dits et écrits, n. 40). Cfr. M. van Vliet, L’histoire de l’art : un paradigme pour penser la logique des sciences de la culture ? Autour des épistémologies d’Ernst Cassirer et de Michel Foucault, in «Revue Appareil», n. 9, 2012, <http://revues.mshparisnord.org/appareil/index.php?>. [7] G. Deleuze, Foucault, Minuit, Paris 1986. [8] M. Foucault, La peinture photogénique, in Le désir est partout. Fromanger, Galerie Jeanne Bucher, Paris 1975, pp. 1-11 (ripreso in Dits et écrits, n. 150). [9] M. Foucault, La pensée, l’émotion, in Michals (D.), Photographies de 1958 à 1982, Paris, musée d’Art moderne de la ville de Paris, Paris 1982, pp. iii-vii (ripreso in Dits et écrits, n. 307). [10] M. Foucault, Theatrum philosophicum, in «Critique», n. 282, 1970, pp. 885-908, su G. Deleuze, Différence et Répétition, PUF, Paris 1969 e Logique du sens, Minuit, Paris 1969 (ripreso in Dits et écrits, n. 80). [11] Cfr. M. Jay, Parresia visuale? Foucault e la verità dello sguardo, in M. Cometa e S. Vaccaro (a cura di), Lo sguardo di Foucault, Meltemi, Roma 2007. Per il dibattito intorno all’attenzione critica di Foucault rispetto alla dimensione visuale (sviluppatosi in seguito alla pubblicazione di M. Jay, Downcast Eyes. The Denigration of Vision in Twentieth-Century French Thought, University of California Press, Berkeley 1993), cui l’articolo fa riferimento, si vedano inoltre G. Shapiro, Archaeologies of Vision. Foucault and Nietzsche on Seeing and Saying, University of Chicago Press, Chicago 2003 (in particolare i capitoli 6 e 10, pp. 193-216 e 285-323) e J. Rajchman, Foucault’s Art of Seeing, in «October», vol. 44, 1988, pp. 88-117, che reagisce al precedente saggio di M. Jay, In the Empire of the Gaze. Foucault and the Denigration of Vision in Twentieth-Century French Thought, in D. Couzens Hoy (a cura di), Foucault. A Critical Reader, Basil Blackwell, London 1986. |