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Per comprendere come arte e letteratura punteggiano le diverse configurazioni del sapere, gli “a priori storici” con cui il “mondo” si dà come rete di saperi e come massa di enunciati, l’autrice propone una distinzione tra le analisi dedicate all’una o all’altra, sia quelle che occupano brevi scritti specifici sia quelle che irrompono in alcuni testi maggiori, primo tra tutti Le parole e le cose. «Mentre le riflessioni sulla pittura vengono utilizzate per approfondire le dinamiche che regolano le pratiche del sapere», scrive, l’opera letteraria appare «come testo capace di scandire il passaggio da un’epoca ad un’altra» (p. 11). L’una «curva di movimento», l’altra «diagramma di stato», letteratura e pittura si collocano in un’«angolazione privilegiata» di «quel tipo di storia filosofica che Foucault chiama genealogia», anche perché assumono su di sé due differenti momenti di “sospensione”, di “rischio”, dell’andamento archeologico. La letteratura appare «capace di trasgredire l’ordine del “quadro” al quale appartiene, viene collocata all’interno degli interstizi epistemici e considerata quale forma di scrittura in grado di rendere conto del passaggio, altrimenti non mostrabile né esemplificabile, da un’epoca all’altra» (p. 53). L’opera pittorica, invece, a partire da Las Meninas, si presenta come il «luogo dove appaiono le modalità attraverso le quali il mondo viene colto», «emblema della propria attualità» (p. 54). Alcune opere pittoriche possono, quindi, essere capaci di un «rapporto sagittale» alla propria attualità, lo stesso rintracciato da Foucault anche nella risposta kantiana alla domanda Che cos’è l’Illuminismo?. Più precisamente: «in quanto icone delle loro stesse condizioni di visibilità, fanno emergere del presente ciò che in esso vi è di attuale» (p. 55). Se l’opera letteraria lascia parlare il linguaggio di quei momenti di salto, di perdita o di sprofondamento dell’ordine in cui, ad ogni passaggio d’epoca, ricade un andamento storico somigliante ad una “lanterna magica” (secondo la famosa espressione polemica di Sartre contro Foucault), la pittura lascia emergere il colore e la luce più irriducibili e originari di una determinata configurazione storica, «gli elementi innovativi del proprio tempo rispetto alla sua stessa contemporaneità». Se, come nota Iacomini seguendo l’Archeologia del sapere, il «grado di visibilità che noi riusciamo ad avere rispetto all’archivio è connesso con il tempo che ci separa da una determinata data epistemica» (p. 212), allora è evidente che l’importanza delle due funzioni attribuite alla letteratura e alla pittura risalterà soprattutto quando si tratterà di affrontare l’archivio, per principio non circoscrivile teoricamente, della nostra attualità. Infatti, se la letteratura si spinge a dirci il movimento non altrimenti descrivibile tra un’epoca e un’altra e se la pittura mostra, invece, l’attualità di un certo presente, la sua novità, ben al di là delle pratiche discorsive ad essa sincroniche, l’attenzione a queste due dimensioni “culturali” non dovrà essere mobilitata proprio laddove si tratta di forzare di un passo il limite sul quale si pone l’archeologo rispetto al proprio archivio? Ora, se si tenta di comprendere qualcosa della nostra attualità riferendosi, ad esempio, alle opere letterarie indagate da Foucault, spiega l’autrice, troviamo una marcata attenzione da parte del filosofo francese per una serie di autori (Blanchot, Bataille, Artaud, Klossowski, Roussel) che, facendo leva sull’essere del linguaggio, puntano ad un depotenziamento del soggetto, alla sua esposizione ad un “fuori” non padroneggiabile. La parola letteraria fa, in questo senso, eco a quella “morte dell’uomo” che, sul finire di Le parole e le cose, indica il possibile disfacimento dell’orizzonte moderno. Lungo questa esperienza di soglia, alla quale il linguaggio archeologico non può che alludere in maniera sfuggente, troviamo, però, non solo il linguaggio straniante di Roussel, ma anche la destrutturazione del rapporto tra soggetto, rappresentazione e linguaggio per come emerge dallo scritto foucaultiano su Magritte. Ciò significa che, nell’inevitabile paradossalità di descrivere l’attualità del nostro archivio, “curva di movimento” (letteratura) e “diagramma dell’oggi” (pittura) si avvolgono l’un l’altra e cessano così di segnalare due funzioni distinte, anche se poste entrambe ai limiti dello scavo archeologico? Questo ennesimo tentennamento non è, piuttosto, il sintomo di un ulteriore gioco di rimandi tra queste opere e l’orizzonte della contemporaneità, tale da costruire lo spazio necessario per un movimento di pensiero che non può più essere sostenuto dalla semplice distanza temporale da un’epoca resa “discorso-oggetto”? Ovviamente non è possibile soffermarsi in questa sede sulle analisi, sempre puntuali, che l’autrice dedica a questi argomenti per gran parte del libro. Merita, però, di essere sottolineato il suo sforzo di fare sempre balenare, alle spalle del movimento di de-soggettivazione che investirebbe la cultura contemporanea, la soglia stessa della modernità o, meglio, la tensione che ne percorre le dimensioni letterarie e pittoriche, spingendole al di qua o già al di là dell’“analitica finitudine” che la caratterizza sul piano del sapere. Manet, per esempio, con la presentazione di quadri-oggetti che non vincolano l’osservatore alla posizione ideale indicata dalla prospettiva, rende il soggetto in grado di trasformare in opportunità i limiti materiali della tela e instaura un rapporto sagittale con un presente non governato dall’ordine della rappresentazione. Sade, d’altra parte, si colloca nel punto in cui la parola letteraria si fa ripetizione e, insieme, cancellazione del discorso già pronunciato, portando alle estreme conseguenze la distruzione dello sdoppiamento della retorica classica in “parola prima” e “parola seconda”, “parola derivata”, per lasciare emergere la «proliferazione fluttuante all’infinito del linguaggio». In questo senso, se la contemporaneità è caratterizzata dall’emergere di un linguaggio che si autoimplica, che varia attraverso la propria ripetizione e che scardina la sovranità del soggetto approssimandosi all’“assenza d’opera” della follia (p. 234), occorre dire che questo movimento si alimenta anche del gesto sadiano, ovvero di uno degli indici letterari di passaggio alla modernità. La Biblioteca moderna, insomma, appare, se collocata sotto il nome di Sade, fin dall’inizio esposta alla sua distruzione. Tra tutti i punti degni di nota del libro, quello maggiormente produttivo di ulteriori sviluppi ci sembra, quindi, essere proprio quello di avere segnalato il carattere sfuggente del “moderno” in quanto apertura nella quale il nostro pensiero è ancora inserito. Infatti, la questione dell’“attualità”, di ciò che segnala il disfarsi dell’orizzonte antropologico moderno, e quella del carattere instabile della modernità, come «evento radicale» (M. Foucault, Le parole e le cose, 1966, Rizzoli, Milano 1996, pp. 235-236) nell’ordine del sapere e come ethos, possibilità di critica e di trasformazione del sé, sono strettamente connesse, quasi come due ritmi temporali interni all’“ontologia del presente” cercata da Foucault. Ora, nell’affrontare queste problematiche il libro tende a volte ad arretrare rispetto a considerazioni di ordine generale sulla “storia filosofica” di Foucault, limitandosi, ad esempio, a prendere atto delle differenze che intercorrono tra i diversi luoghi (da Le parole e le cose ai testi su Kant e l’Illuminismo) in cui Foucault tenta di caratterizzare la modernità e il suo rapporto al presente. Un punto di possibile criticità nell’impianto teorico generale del libro potrebbe, allora, essere individuato proprio nel modo con cui viene affrontata la questione dell’attualità. L’attuale, seguendo l’argomentazione della Iacomini, segna una «differenza» sul piano del presente, esattamente nella misura in cui rappresenta la novità che lo caratterizza. Attuale è, insomma, il nuovo nel contemporaneo. L’opera pittorica può costituirsi in rapporto sagittale all’attuale, esattamente nella misura in cui è in grado di «tematizzare ciò che di nuovo vi è nel presente», ovvero, passaggio non privo di importanza, di «rendere visibile la configurazione originaria del sapere» (p. 56), altrimenti non descrivibile. Tuttavia, questa ricostruzione, senza dubbio corretta, tende a ridurre un’altra dimensione dell’attuale (peraltro già messa in luce da numerosi commentatori): quella di superficie percorsa da «linee di fragilità» (la cui diagnostica coincide con il «dire ciò che è facendolo apparire come qualcosa che potrebbe non essere, o potrebbe non essere com’è»; M. Foucault, Structuralisme et poststructuralisme, 1983, in Dits et écrits IV, Gallimard, Paris 1994, p. 449), «friabilità generale dei suoli» (M. Foucault, Bisogna difendere la società, 1975-1976, Feltrinelli, Milano 1988, p. 15), smottamento del presente come «punto di irruzione dell’impossibile» (Intervista con R-.P. Droit, IMEC, fondo Foucault, FCL A02-02, 1975), luogo e posta in gioco di un lavoro per se dépendre de soi même (M. Foucault, Le souci de la verité, 1984, in Dits et écrits IV, cit., p. 675) che risponde al vecchio sforzo di se dépendre dalla modernità (M. Foucault, Sur les façons d’écrire l’histoire, 1967, in Dits et écrits I, Gallimard, Paris 1994, p. 599). |