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Unico e singolare appare il tentativo di Arnold Davidson di accostare la pratica degli esercizi spirituali ad un pensatore del nostro tempo fuori dal comune: Primo Levi, dapprima detenuto dal febbraio del 1944 al gennaio del 1945 ad Auschwitz III, nel campo di Buna-Monowitz, poi scrittore-testimone con Se questo è un uomo. Perché Primo Levi dovrebbe compiere esercizi spirituali? Perché uno scrittore, seppur narratore di eventi “unici” del nostro tempo, dovrebbe suscitare in noi, lettori del presente, la curiosità di leggere ancora sui campi di concentramento, eventi a noi ormai divenuti familiari?

La testimonianza di esperienze estreme vissute in prima persona è, oltre che dolorosa, pericolosa: si preferisce richiamare dal serbatoio della memoria gli eventi di tregua, di conforto, di sollievo, oppure il racconto può essere stilizzato e anche sterilizzato, nel senso di reso sterile, da testimonianze che assomigliano più ad uno sfogo liberatorio, che ci fanno volgere lo sguardo piuttosto che spingerci ad “indugiare sull'orrore”, per parafrasare Hannah Arendt. Come poter raccontare esperienze di destituzione estrema senza annebbiare il ricordo, senza assumere il tono lamentevole della vittima o quello irato del vendicatore?

Primo Levi decide, per sottrarsi ai pericoli di deformazione della memoria, di assumere il linguaggio “pacato e sobrio” del testimone, raccontando solo ciò che ha visto e vissuto in prima persona. Ma rendere comprensibile la testimonianza nel suo complesso richiede altri strumenti per passare da una prospettiva parziale (il livello del testimone) ad una prospettiva obiettiva che consenta di oltrepassare il punto di vista personale, per rendere accessibile universalmente il senso storico dell'esperienza di Auschwitz.

Per Primo Levi, lo strumento di trasformazione per distaccarsi da una prospettiva parziale e accedere ad un punto di vista obiettivo, sarà la scrittura. Ma egli è prima di tutto un sopravvissuto e dunque un testimone. Il testimone, dal latino “terstis”, è appunto il terzo fra due contendenti. Il discorso del testimone, come spesso afferma Primo Levi, è infatti un discorso pronunciato in vece di qualcun altro, in vece di chi ha percorso interamente il fondo e che non avrebbe testimoniato nemmeno in vita.

Primo Levi ritorna da Auschwitz con una domanda: siamo ancora degni di essere chiamati uomini? Noi che abbiamo visto il sole sorgere e morire attraverso il filo spinato? Noi che potremmo essere vivi al posto di un altro?

La necessità del raccontare trapelava nel campo sotto forma di un sogno comune a tutti i deportati: l'incubo di esser ritornati alla “mensa sicura” e di non essere ascoltati o creduti dall'interlocutore. Un incubo accompagnato dagli scherni delle stesse SS che si divertivano a tormentare i prigionieri: nessuno li avrebbe ascoltati, la verità era troppo mostruosa per essere creduta. Il sopravvissuto dovrà testimoniare affinché permanga un ricordo, che dovrà valere come monito al presente, e per dissolvere l'atmosfera di irrealtà che era trasmessa dai ricordi stessi dei deportati.

La modalità della testimonianza scelta da Primo Levi è la scrittura, attraverso la quale il punto di vista iniziale – la prospettiva del testimone – si innalza ad un piano di obiettività. «Diciamo che l'obiettività è una virtù, per altro molto difficile da praticare»[1]. Pierre Hadot rintraccia un possibile legame tra l'attività dello scienziato o dell'intellettuale e gli esercizi spirituali. Fare scienza significa risolvere dei problemi in una prospettiva oggettiva, evitando di valorizzare con immagini e impressioni soggettive l'oggetto studiato. In questo senso l'attività scientifica educa al distacco da se stessi: tendere all'obiettività non è solo un modo come un altro di praticare la scienza, ma significa soprattutto plasmare se stessi. Non vi è contrasto tra l'attività dello scienziato e dell'intellettuale, tra «chi studia un testo o i microbi o le stelle»[2], se il fine a cui tendere è l'obiettività, per sollevarsi dalla parzialità di un punto di vista soggettivo.

Il legame tra l'obiettività cui dovrebbero tendere sia lo scienziato che l'intellettuale è insito nei due mestieri di Primo Levi: la chimica e la scrittura. La volontà di osservare, descrivere, analizzare un mondo dotato di leggi proprie per tentare di trovare un principio di ordine è una vera e propria sfida per lo scienziato. L'obiettività della prospettiva del chimico attraversa il linguaggio dello scrittore: il linguaggio preciso, conciso, che mira all'essenziale, ha per Primo Levi un valore tanto letterario quanto scientifico.

La scrittura è, dunque, un tentativo di distaccarsi da sé per rendere accessibile agli altri l'unicità di un'esperienza in cui la parola sembra arrestarsi, incapace di restituire il ricordo di quanto «ad Auschwitz, è bastato animo all'uomo di fare dell'uomo»[3]. Primo Levi dovrà “scrivere chiaro” per superare il punto di vista particolare della “vittima” o del reduce che richiede giustizia per l'offesa subita affinché la testimonianza sia comprensibile alla comunità umana nel suo insieme. La “scrittura chiara” dovrà dare forma al ricordo di quel mondo che appariva «incomprensibile e folle»[4], per trasmettere agli altri la propria esperienza.

Primo Levi erige a regola etica la trasparenza del linguaggio: è la risposta di chi ha conosciuto l'eclissi della parola.

Il cambiamento di prospettiva comporta uno sforzo, un «difficile lavoro su noi stessi»[5].

Attraverso la scrittura è possibile il dialogo con se stessi, che è un'attività fondamentale di Se questo è un uomo. Negli esercizi spirituali la dimensione dell'interlocutore è essenziale: affinché si possa cambiare punto di vista, atteggiamento, convinzione, è necessario «dialogare con se stessi, dunque lottare con se stessi»[6]. Con la scrittura nel campo – quando Primo Levi prendeva in mano carta e matita per scrivere ciò che non avrebbe saputo dire a nessuno – il deportato è preso dallo struggimento di essere uomo. Insieme a questo ricordo doloroso la scrittura, ad avvenuta liberazione, sarà lo strumento per dialogare con l'altro.

Il dialogo, interiore ed esteriore, è una delle pratiche tipiche degli esercizi spirituali: il cambiamento di prospettiva è infatti ottenuto anche grazie a discorsi che mirano «più a formare che a informare»[7].

Il dialogo con se stessi lascia lo spazio ad un altro interlocutore: è il lettore a dover giudicare “se questo è un uomo”. Davidson sottolinea sia l'attività primaria del dialogare con se stessi, sia l'attività del dialogare con l'altro, due attività compresenti negli esercizi spirituali.

Il dialogo con l'altro è evidenziato dall'autore grazie all'analisi della poesia Shemà. La poesia Shemà, che in ebraico significa “ascolta” (dalla prima parola della preghiera fondamentale dell'ebraismo in cui si afferma l'unità di Dio), contrappone nella prima strofa la serenità di un'esistenza normale (sicurezza, casa, cibo caldo, visi amici) alla non-esistenza concentrazionaria (morte, abbandono, fame, insicurezza). Rivolgendosi direttamente al lettore, il testimone lo invita ad assumere un compito etico: il lettore deve considerare “se questo è un uomo”.

“Considerate” è un appello diretto al giudizio umano per dare al lettore la funzione di giudice; Primo Levi non impone il suo giudizio ma chiede ad ognuno di noi di formularlo.

Al quesito “se questo è un uomo” il libro non darà alcuna risposta: è il lettore che dovrà giudicare se può essere ancora uomo o donna chi ha vissuto ciò che Primo Levi sta per raccontare. Si dovrà giudicare Auschwitz non attraverso parametri di bene e male, dato che sono concetti non applicabili allo spazio “al di qua del bene e del male”, ma piuttosto considerare “che questo è stato” accogliendo (“meditate”, “scolpitevele”, “ripetetele”) la verità della testimonianza.

L'appello al lettore è, dunque, un «intervento etico»[8] perché, come sottolinea Davidson, tutto il libro ci spinge a considerare “se questo è un uomo”, dato che il progetto del Lager era «la demolizione di un uomo»[9].

La correlazione tra esercizi spirituali che comportano un cambiamento di prospettiva e la testimonianza che grazie alla scrittura consente l'innalzarsi da una prospettiva particolare ad una prospettiva universale, convergono nell'appello ad una trasformazione etica. «I lettori di Primo Levi siamo noi»[10], perché dopo aver risposto all'appello del testimone, spetta a noi decidere se proseguire «il difficile cammino della verità»[11]. Continuare a praticare la verità significa compiere un esercizio spirituale anche su noi stessi.



[1] Ivi, p. 92.

[2] Ibidem.

[3] P. Levi, Se questo è un uomo, in Opere, vol. I, Einaudi, Torino 1997, p. 49.

[4] Ivi, p. 18.

[5] A.I. Davidson (cura), La vacanza morale del fascismo, Edizioni ETS, Pisa 2009, p. 9.

[6] P. Hadot, op. cit., p. 14.

[7] Ivi, p. 121.

[8] A.I. Davidson, op. cit., p. 15.

[9] P. Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 20.

[10] A.I. Davidson, op. cit., p. 19.

[11] P. Levi, Il difficile cammino della verità, in Opere, vol. II, Einaudi, Torino 1997, p. 1173.

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