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Valentina Antoniol Il coraggio della ri-cerca Recensione di Pierpaolo Cesaroni & Sandro Chignola (a cura di), Politiche della filosofia. Istituzioni, soggetti, discorsi, pratiche, DeriveApprodi, Roma 2016 (224 p.) «L’assunzione radicale del rischio della propria libertà è quanto, in fondo, Foucault non smette di salvaguardare nella pratica coraggiosa del proprio filosofare, e quanto di più urgente e prezioso ci lascia in eredità» (p. 218). Con queste parole di Claudio Cavallari si conclude la raccolta di saggi curata da Pierpaolo Cesaroni e Sandro Chignola. Esse hanno il merito e la capacità non solo di racchiudere il senso profondo di questo libro, ma anche di indicare la direzione verso la quale muovono le ricerche in esso contenute. La risoluta raccolta di un’eredità. È questa l’audace matrice che fa da sfondo alle varie analisi, le quali sono attraversate – per l’appunto – da un segno marcatamente foucaultiano. Al centro di queste la filosofia, nel suo processo di permeabilità e contemporaneamente di contaminazione di spazi e di tempi. O meglio, la filosofia come relazione: messa cioè alla prova mediante lo studio del nesso con la sua propria istituzione. Non dunque da un lato la filosofia e dall’altro il potere[1], ma l’intrinseca politicità della filosofia, nel suo darsi e nel suo farsi, nel suo essere viva scompaginazione di argini e confini, campo d’azione di molteplici rapporti di forza. Una sfida, quindi, perché se – come è indicato nell’Introduzione – «è impossibile per la filosofia sottrarsi al processo della propria istituzionalizzazione» (p. 6), allo stesso tempo è però necessario pensare per essa un percorso altro, alternativo nel suo modo di istituirsi. È a partire da tali stimoli che si dispiegano le riflessioni sviluppate in questo lavoro, frutto di un seminario, tenuto a Padova e durato per ben tre anni (dal 2011 al 2014), che a sua volta ha saputo far tesoro del legame con quella che era stata l’esperienza del gruppo di ricerca – sempre padovano e guidato da Giuseppe Duso – sui concetti politici moderni. Ciascuno dei dieci saggi presenti esplora temi specifici che risultano accomunati da una determinata impostazione metodologica. Non è difficile infatti scorgere l’analisi collettiva che sta dietro alle singolari prospettive di indagine; quel noi che sta alla base di una precisa e avveduta capacità di strutturare condivise domande di ricerca. Se è vero, quindi, come più volte sottolineato dai vari autori, che la filosofia non può mai essere considerata un’attività separata o a sé stante, certamente non è questione indifferente il campo sociale all’interno del quale essa si istituisce come «specifica pratica di pensiero» (p. 10). Politiche della filosofia nasce per l’appunto dalle riflessioni e dalle condivisioni di una ricerca in comune, realizzata nell’orizzonte di un determinato panorama universitario, all’interno del quale si osserva una certa politica della filosofia. È anche a partire da questi presupposti che vanno letti due dei saggi contenuti nel libro: quello di Paolo Slongo, che indaga i processi di istituzionalizzazione del discorso filosofico nelle accademie francesi del XVIII secolo, e quello di Sandro Pellarin, che esamina invece «l’impossibile comunità della scienza» (p. 104) del Collège de Sociologie di Parigi. Nel primo di questi saggi, Slongo rivolge particolare attenzione all’esperienza di Montesquieu all’Académie di Bordeaux. Il filosofo francese mette in luce come nelle accademie del Settecento – a differenza di quanto avveniva invece nelle università dell’epoca –, l’attività scientifica fosse contraddistinta da un costante esercizio di ricerca (nel senso di cercare qualcosa di nuovo) che coinvolgeva un’intera collettività. Il savant-ricercatore è infatti colui che dal proprio impegno sente di trarre risultati che sono di interesse comune. Egli si espone al confronto e alla revisione critica della propria comunità di riferimento, la quale ha il compito di reindirizzare il suo lavoro in funzione di una realtà sempre mutevole. Si assiste in questo modo a una nuova pratica del sapere che si realizza mediante uno scambio di idee e che implica a sua volta una volontà di critica costruttiva di quello stesso sapere. La ricerca, che ha carattere zetetico, non può mai – pertanto – dirsi definitiva e, come osserva Slongo, «lo zelo è […] il sentimento che spinge l’uomo di scienza a partecipare a una ricerca collettiva» (p. 68). Anche nel saggio di Pellarin uno dei nodi centrali analizzati è quello della costituzione di un gruppo di ricerca. Il contesto è in questo caso molto diverso: siamo nella Parigi degli anni trenta, precisamente nel 1937, in un’atmosfera che già respira i presagi della Seconda guerra mondiale. È in questa condizione storico-politica che, soprattutto su iniziativa di Georges Bataille, nasce il Collège de Sociologie, con lo scopo di dare vita a un’esperienza di ricerca scientifica, a carattere collettivo, capace di mantenere un’autonomia rispetto alle istituzioni universitarie e, più in generale, culturali. Nonostante tra gli obiettivi del gruppo vi fosse quello di riunire campi eterogenei del sapere, gli interessi si rivolgono principalmente alla scienza sociologica e in particolare al tema del sacro, inteso come fondamento della società e catalizzatore della produzione di comunità. Si comprende dunque quanto, per il Collège, il piano dell’aggregazione e della costruzione di un’attività di ricerca a carattere collettivo-comunitario risultasse un obiettivo fondamentale al fine di rovesciare l’ordine sociale esistente, marcato, in quella precisa fase storica, dal drammatico affermarsi del nazifascismo. Come scrive infatti l’autore: «L’impresa tentata era quindi sì di tipo teorico-scientifico, ma la sua vera posta in gioco investiva direttamente l’ambito politico» (p. 108). L’esperienza del Collège de Sociologie si conclude in realtà in breve tempo. Secondo la lettura data da Pellarin, è proprio la pretesa di non diventare istituzione, o meglio il contrasto sulla possibilità o meno di diventare tale, che conduce il progetto alla sua dissoluzione già nel 1939. Un evento questo non di poco conto, anzi. L’intera raccolta di saggi rappresenta infatti l’espressione di una presa di posizione condivisa che incarna la riconosciuta necessità, per la riflessione filosofica, di farsi carico della propria pratica, analizzando i processi di istituzione dei propri discorsi e di costituzione dei propri soggetti, nonché il rapporto che essa intrattiene con altri campi discorsivi esistenti. Alla maniera in cui Foucault ha saputo offrire un esempio prezioso e radicale di politica della filosofia[2], allo stesso modo questo libro ne prende in carico le possibilità, al fine di far emergere altre politiche della filosofia, capaci di mettere in luce le fragilità di forme di veridizione pigramente consolidate all’interno di tradizionali campi del sapere. Studiare la filosofia nel suo nesso con l’istituzione significa infatti problematizzare ciò che (solo apparentemente) risulta incontrovertibile, ma che, invece, è assolutamente possibile riconfigurare. Con l’intento di far emergere modalità differenti di istituzionalizzazione del discorso filosofico, viene tracciato quindi un percorso che segue un’impostazione archeologica[3] e che arriva a toccare epoche precedenti alla fondazione dell’università moderna. Oltre al già menzionato saggio di Slongo, particolarmente interessanti sono i lavori di Lorenzo Rustighi e Girolamo De Michele. Il saggio di Rustighi, che apre la raccolta, individua nelle fasi aurorali dello sviluppo dell’universitas medievale la chiave privilegiata attraverso la quale ricostruire la formazione, non semplice né tantomeno lineare, di una certa pratica/politica del sapere che ha messo in atto un nuovo esercizio della filosofia. Tra il XII e il XIV secolo, la dimensione universitaria si ritrova infatti ad essere il fulcro di tutta una serie di scontri, lotte e riforme da cui dipende non solo la sua stessa configurazione, ma anche una più ampia ristrutturazione sociale che coinvolge tanto l’ambito religioso quanto quello civile e imperiale. Ad essere messe in gioco sono pertanto tutte le questioni riguardanti il rapporto tra autorità spirituali e temporali, le quali riconoscono l’università come terreno di battaglia per la definizione delle proprie aree di influenza e legittimità. In particolare, Rustighi osserva come tutta una serie di strategie (la rinascita della filosofia aristotelica, la tecnica della disputatio, la riabilitazione del diritto romano) diano vita a un percorso filosofico/giuridico/politico che porta all’acuirsi di linee di forza, le quali –per l’appunto – sono il sintomo di come non si dia «soluzione di continuità tra la posta dell’egemonia sul sapere e quella delle relazioni con il potere» (p. 30). Con il saggio di Girolamo De Michele si entra invece nell’epoca delle corti rinascimentali italiane: specifici luoghi di organizzazione del sapere e di produzione di pratiche discorsive, le quali tuttavia non possono essere riconducibili alla costituzione di una nuova episteme, come quella sottesa all’Âge classique, così come individuata e descritta da Foucault ne Le parole e le cose[4]. Nelle corti si assiste infatti alla messa in opera di meccanismi di assoggettamento che conducono a processi di soggettivazione (disciplinare) enormemente distanti da quelli che avevano reso possibile nel Nord Europa la nascita dei vari «Hobbes, o Berkeley, o Hume, o Condillac»[5]. Nelle corti italiane acquista infatti importanza l’uomo d’arme, mentre «il filosofo, e più in generale l’uomo di lettere, subisce una svalutazione parallela al deprezzamento della ricerca interiore» (p. 44). Dalle analisi tracciate nei vari saggi sino a qui presentati emerge dunque una profonda discontinuità tra differenti politiche della filosofia. L’indagine di queste è utilizzata proprio per esaminare la questione fondamentale dello statuto della filosofia, la quale vive continui processi di riorganizzazione che mettono in discussione le modalità attraverso le quali essa si presenta come disciplina universitaria, cristallizzata in certe forme specifiche. Non solo, la sua ricodificazione implica allo stesso tempo un condizionamento dell’intero campo del sapere. È questo quanto emerge dal saggio di Giulia Valpione. Mediante una rilettura de Il conflitto delle facoltà di Kant[6], l’autrice si inoltra in un’indagine della filosofia all’interno del dispositivo universitario moderno, e precisamente in quel momento, alla fine del XVIII secolo, nel quale l’università tedesca vive una fase di crisi e trasformazione. L’analisi sviluppata da Kant, che mette in evidenza un conflitto tra la Facoltà inferiore, la quale gode di uno spazio di autonomia per perseguire liberamente la ricerca della verità, e le tre Facoltà superiori, che sono invece strumenti di governo, esplora infatti quella che è la problematica relazione tra teoria e pratica da cui dipende l’organizzazione della struttura universitaria. Alla filosofia, apparentemente relegata ad assumere un ruolo marginale (proprio perché impegnata nella produzione teorica), spetta in realtà un ruolo centrale all’interno dell’Università e dello Stato: «non potrà certo, secondo Kant, avere un ruolo diretto nel palcoscenico della politica, ma quest’ultimo senza la teoria non potrebbe più sussistere» (p. 99). La domanda sullo statuto della filosofia è centrale anche nel saggio di Pierpaolo Cesaroni, che segna un punto di svolta, quasi un giro di boa, tra i vari testi presenti in Politiche della filosofia. Da una prospettiva archeologica si passa infatti a uno sguardo genealogico che ancora una volta rende evidente «l’attitudine foucaultiana della […] ricerca» (p. 9). In questa seconda parte del libro, l’attenzione è rivolta prevalentemente all’analisi di una serie di nuclei concettuali – richiamati già nella prima sezione – che costituiscono gli architravi portanti di tutta la struttura della raccolta. Cesaroni si chiede infatti: «Cosa significa considerare la filosofia nella sua dimensione di discorso nel senso determinato che Foucault attribuisce al termine?»[7]. Rispondere a questa domanda implica allora chiarificare che cosa voglia dire pensare e praticare la filosofia oggi e in che cosa consista la rottura che si dà rispetto ad altre esperienze passate. Il metodo genealogico consente dunque di misurare uno scarto, al fine di proiettarsi in quelle che sono le possibilità di nuovi scarti futuri. Per indagare ciò, l’autore esamina tre modi diversi di fare filosofia, tracciando un percorso attento a non ricadere nella classica dicotomia dentro-fuori, interno-esterno, rispetto al campo filosofico. In particolare, Cesaroni analizza la celebre polemica tra Foucault e Derrida e la critica mossa a quest’ultimo da parte di Bourdieu. Tra la posizione di Derrida (non è mai possibile porsi all’esterno della filosofia) e quella di Bourdieu (è necessario guardare da fuori alla filosofia), emerge secondo Cesaroni l’originalità della prospettiva di Foucault, che si discosta da entrambe, puntando l’accento sull’esteriorità del discorso e cioè sulla questione «dei modi di produzione del discorso filosofico» (p. 134). Foucault rivendica infatti un’esteriorità non tanto alla filosofia – la sua analisi è infatti interna ad essa –, ma a quell’insieme di regole che ne caratterizzano la produzione discorsiva (in particolare facendo riferimento al contesto francese). In definitiva, ciò che viene messo in discussione sono le modalità di produzione degli enunciati, dei concetti e dei soggetti della filosofia: i modi cioè della sua istituzione. Quanto emerge dall’analisi di Cesaroni non è dunque “solamente” una puntuale analisi filosofica, quanto l’assunzione di una proposta, tutta foucaultiana, che implica il coraggio della problematizzazione di ciò che è dato come a-problematico. Su questa stessa linea si muove anche Mauro Farnesi Camellone il quale, rifacendosi all’utilizzo di strumenti foucaultiani e merleaupontiani, indaga la questione dello statuto del soggetto (della filosofia) nel suo rapporto biunivoco con l’istituzione. Il nodo centrale è qui quello di intendere «le figure della soggettività nel punto d’incrocio tra dispositivi di assoggettamento e pratiche di soggettivazione»[8] e, all’interno di questa riconosciuta configurazione, indagare le possibilità del soggetto della filosofia in qualità di soggetto istituente. Ad esso, impegnato in un continuo processo di de-oggettivazione, compete infatti la responsabilità di insistere, mediante la pratica filosofica, «sull’istituzione con cui si interfaccia» (p. 153) al fine di determinarne nuove possibili configurazioni. Sulle capacità, le possibilità e le modalità del soggetto della filosofia si interrogano inoltre i saggi di Paolo Slongo (il secondo all’interno del volume) e di Renato Ercego, i quali assumono Nietzsche come riferimento filosofico centrale. Nel primo, ripercorrendo l’analisi (autobiografica) sviluppata nella terza Considerazione inattuale su Schopenhauer[9], Slongo individua la maniera nietzschiana di concepire il filosofo-educatore, descritto come colui che – facendosi carico in modo attivo della propria inattualità – consente attraverso il proprio esempio di esplorare il valore dell’esistenza e di aprire lo sguardo a nuove forme di vita. Egli infatti si proietta verso un’attualità altra. Nella figura di Schopenhauer (e in maniera addirittura superiore in quella di Montaigne) si ritrova dunque il tipo del “vero filosofo” – onesto, rasserenante – che muove «da un’irriducibile esteriorità» (p. 166) rispetto all’università, e che si contrappone ai “ruminanti” accademici. Questi ultimi, tra i quali viene incluso lo stesso Kant, rappresentano il tipo di “filosofo di università”, sottomesso e asservito allo Stato, complice di un’educazione alla subalternità che non cerca la verità, ma solamente una verità utile. Da ciò emerge dunque quanto l’esaltazione del filosofo-educatore e della sua estraneità rispetto a una certa istituzionalizzazione della filosofia sia proprio ciò che consente di far emergere una figura altra di filosofo – pericolosa per lo Stato – la quale, in un certo senso, possiede le caratteristiche del parresiasta di cui parla Foucault nei Corsi al Collège de France degli ultimi anni[10]. Ciò su cui Slongo mette l’accento è pertanto l’esempio di chi coraggiosamente aspira a inventare nuove forme di vita, capaci «di imporre la loro forza sull’ambiente piuttosto che adattarsi ad esso» (p. 171). Nel saggio di Ercego – all’interno del quale risulta fondamentale anche il confronto con Deleuze e Spinoza – il riferimento a Nietzsche, soprattutto al Nietzsche della Genealogia della morale[11], è il punto di partenza per indagare il problema del governo degli esseri umani mediante un’analisi della «dinamica del potere delle istituzioni» (p. 179) e del condizionamento che queste esercitano sugli individui. In particolare, viene esaminato l’influsso che Stato e società rivestono su quel tipo umano che normalmente viene considerato come portatore di un punto di vista superiore e di prospettive disinteressate: il filosofo o lo scienziato. La questione fondamentale per Ercego, messa in luce nella sua elaborata analisi, è infine quella di abbandonare la concezione secondo la quale ogni azione dipende da una volontà soggettiva e libera. In realtà, la volontà e la libertà del soggetto sono «prodotti sociali grezzi e non doni miracolosi» (p. 194); ciò che deve essere curato e allenato sono quindi le «forme di vita, […] le capacità di patire, […] le capacità di agire» (p. 195). Infine, l’ultimo saggio del volume è quello di Claudio Cavallari, dedicato proprio a Foucault e allo stesso tempo proiettato oltre Foucault nel delineare quelle coordinate che stanno alla base della comprensione di che cosa significhi fare politica della filosofia. In esso si delinea una sorta di doppio binario intrecciato, che da un lato segue uno specifico esempio di indagine, dall’altro snocciola gli elementi che stanno alla base di ogni politica della filosofia. Cavallari si inoltra infatti nel percorso seguito dal filosofo francese, mostrandone la forte impronta politica che ne caratterizza l’intera produzione. Eppure, in questo modo, è come se, contemporaneamente, ripercorresse la costruzione e il senso profondo del libro, per mostrarne ancora una volta la matrice foucaultiana. Egli mette in luce molto bene, infatti, come un’analisi sull’etica degli atteggiamenti sia possibile solo dopo un percorso che abbia saputo articolare archeologia e genealogia. Allo stesso modo, l’indagine sulla figura del cinico[12], la quale consente di individuare il funzionamento di uno specifico atteggiamento filosofico definito da Foucault come “ontologia dell’attualità”, indica per l’appunto una certa modalità di rapportarsi al presente – marcata da questioni del tipo: «Qual è la mia attualità? […] E che cosa produce il fatto che io parli di questa attualità?»[13] – nelle quali si può facilmente riconoscere il terreno che fa da sfondo alla domanda sullo statuto della filosofia, posta in molti dei saggi contenuti nel libro. Centrale a questo punto è inoltre la rilevanza accordata da Cavallari alla nozione di parrhesia (in particolare nella sua forma cinica) come modalità di dire-il-vero. Essa indica il coraggioso posizionamento del soggetto, capace di dire la verità a chi governa, assumendo con ciò il rischio e la responsabilità del proprio agire discorsivo e, pertanto, problematizzando specifiche modalità di istituzionalizzazione della produzione del discorso filosofico. È in questo modo – mediante il continuo attraversamento e l’incessante trasformazione di limiti imposti – che, come scrive Cavallari, «la filosofia diviene ethos e la soggettivazione politica» (p. 212). Solo così si può realizzare una nuova politica della filosofia, diversa da quelle che già conosciamo; ed è proprio questo il compito che gli autori di Politiche della filosofia hanno deciso di assumere. Parafrasando un passaggio tratto dal saggio di Slongo su Montesquieu: la filosofia è un’avventura di ricerca, un viaggio per mare che impegna tutta una collettività, il filosofo è quell’esploratore che deve navigare con coraggio verso una terra incognita lontana dalle rotte fin qui conosciute, estranea alle carte fin qui disegnate (p. 67).
[1] Cfr. la conferenza tenuta il 27 aprile del 1978 all’Asahi Kodo di Tokyo, durante la quale Foucault sostiene: «Forse si può immaginare che la filosofia possa ancora interpretare una parte nei confronti del potere […] a condizione di non far più valere, di fronte al potere, la legge stessa della filosofia; a condizione che la filosofia smetta di pensarsi come profezia […]. Insomma, a condizione che la filosofia smetta di indagare la questione del potere in termini di male o di bene, per porla in termini di esistenza»; M. Foucault, La filosofia analitica della politica (1978), in Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste, vol. 3, 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, trad. it. S. Loriga, Feltrinelli, Milano 1998, p. 103. [2] Cfr. S. Chignola, Foucault oltre Foucault. Una politica della filosofia, DeriveApprodi, Roma 2014, p. 6. [3] Cfr. M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura (1969), trad. it. G. Bogliolo, BUR, Milano 2015. Si tratta di uno dei testi ai quali viene fatto maggiormente riferimento, sia implicitamente sia esplicitamente, nei vari saggi. [4] Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966), trad. it. E. Panaitescu, BUR, Milano 2013. [5] Ivi, p. 79. [6] I. Kant, Il conflitto delle facoltà (1798), trad. it. D. Venturelli, Morcelliana, Brescia 1994. [7] Cfr., oltre al già indicato L’archeologia del sapere, anche il testo della lezione inaugurale tenuta da Foucault al Collège de France: M. Foucault, L’ordine del discorso. I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola (1970), trad. it. A. Fontana, Einaudi, Torino 1972. [8] S. Mezzadra, Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione, manifestolibri, Roma 2014, p. 27. [9] F. Nietzsche, Schopenhauer come educatore (1874), trad. it a cura di M. Montinari, in Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, III, 1, Adelphi, Milano 1972, pp. 357-457. [10] Cfr. in particolare M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), ed. stabilita da F. Gros, trad. it. M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003; Id., Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), ed. stabilita da F. Gros, trad. it. M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2009; Id., Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), ed. stabilita da F. Gros, trad. it. M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2011. [11] F. Nietzsche, Genealogia della morale (1887), trad. it. F. Masini, Adelphi, Milano 2008. [12] Cfr. in particolare il Corso del 1984: M. Foucault, Il coraggio della verità, cit. [13] M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, cit., p. 21. Per comprendere la concezione foucaultiana di “ontologia dell’attualità” è inoltre necessario fare riferimento al concetto di critica, che Foucault accosta alla nozione kantiana di Aufklärung e di cui si occupa in maniera molto intensa a partire dal 1978. Cfr. in particolare la conferenza tenuta nel 1978 alla Société française de Philosophie, pubblicata in italiano con il titolo Illuminismo e critica, trad. it. P. Napoli, Donzelli, Roma 1997, della quale si segnala una nuova edizione: Qu’est-ce que la critique? suivi de La culture de soi, ed. stabilita da H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, Vrin, Paris 2015; la prima lezione del Corso Il governo di sé e degli altri, cit., pp. 11-47; e il testo Che cos’è l’Illuminismo? (1984), in Archivio Foucault 3, cit., pp. 217-232. |