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Andrea Angelini Gli “attrezzi” nietzschiani nella filosofia critica di Foucault Recensione di Stefano Righetti, Foucault interprete di Nietzsche. Dall’assenza d’opera all’estetica dell’esistenza, Mucchi Editore, Modena 2012 (238 p.) Tanto la ricerca di Foucault quanto quella di Nietzsche sono contraddistinte, seppur all’interno di modalità espressive molto diverse, da continui spostamenti e cambiamenti di rotta. Questa interrogazione continuamente ripresa, mai acquietata in una prospettiva definitiva, ci pone al cospetto di opere da ambo le parti intimamente ostili nei confronti di un’inquadratura unitaria e lineare. Il rapporto privilegiato che ha legato Foucault al filosofo dell’Übermensch fornisce un grande esempio del suo metodo di lettura – applicato con vantaggio anche nei confronti di Kant o Marx, o, in modo più mediato e complesso, anche di Hegel – finalizzato a valorizzare e assorbire elementi concettuali fecondi e strumenti di analisi efficaci, per impostare e indirizzare la propria ricerca. Tutt’altro che una lettura epigonale o una “ripetizione devota”, come si è sostenuto[1]. Partendo dalle indicazioni testuali, l’analisi dell’interpretazione foucaultiana di Nietzsche richiede perciò la composizione di una complessa mappa interpretativa, nella quale rintracciare delle zone adiacenti, dei territori comuni, degli elementi analoghi o delle distanze. Difficoltà che il libro di Righetti non teme di affrontare, proponendo lo studio più ampio e articolato oggi disponibile sul tema. Il filo conduttore dell’analisi è cronologico, e si svolge lungo quattro fasi principali – benché non prive di sovrapposizioni e slittamenti interni – riconosciute nell’opera di Foucault: quella che va da Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique a Les mots et les choses (capitolo 2); il periodo tra l’opera “strutturalista” del 1966, L’archéologie du savoir e il saggio del 1971 Nietzsche, la généalogie, l’histoire (capitolo 3); gli anni settanta, la riflessione sul potere fino a Surveiller et punir e agli scritti sull’Illuminismo (capitolo 4); la quarta fase, iniziata dalla seconda metà degli anni settanta con il progetto di una Histoire de la sexualité – il quale ha visto sostanziali modifiche rispetto agli intenti iniziali – e conclusasi con la morte del filosofo nel 1984 (capitolo 5). Inizialmente, il rapporto di Foucault con Nietzsche è mediato essenzialmente da intercessori quali Maurice Blanchot e Georges Bataille, e attraverso di loro da autori tedeschi come Jaspers e Heidegger. Documentando meticolosamente i rimandi letterari e filosofici presenti in Histoire de la folie, Righetti mette bene in luce quanto la figura di Nietzsche che in essa emerge, e da cui prende forma la struttura stessa della celebre tesi di dottorato del 1961, si richiami all’influenza di quei pensatori. La trasgressione e il refus del razionalismo utilitarista borghese, l’antipositivismo, la dissoluzione del soggetto che si esprime nel fragile ma strettissimo rapporto che lega follia, libertà e linguaggio letterario – del quale sono manifestazione le “opere assenti” di Nerval, Artaud, Roussel, o quelle precedenti di Racine, Sade, Hölderlin, Mallarmé – sono tutti temi che Foucault sviluppa a partire da Bataille e Blanchot, oltre che da Klossowski. Accanto ad essi, Foucault offre un’immagine di Nietzsche tendenzialmente romantica e irrazionalista, incastonata nel lascito del simbolismo e del surrealismo, e tutta giocata sui temi del tragico e del dionisiaco (pp. 45-86). Le opere di riferimento alle quali Foucault si richiama in questo periodo sono, in primo luogo, La nascita della tragedia, ma anche Così parlò Zarathustra e gli ultimi scritti precedenti al tracollo psichico: Ecce homo, i Ditirambi di Dioniso, le Lettere da Torino. Pochi anni più tardi, Foucault rivisita profondamente la sua lettura di Nietzsche. Come in altri studi dedicati da Righetti al filosofo francese[2], l’autore fa notare che alla fine degli anni sessanta Foucault ha radicalmente modificato il suo modo di considerare la letteratura, non essendo più persuaso della sua possibilità di collocarsi in un’esteriorità rispetto al logos, di rapportarsi a un fuori inteso come dimensione originaria e atemporale. Di conseguenza, Foucault cessa di attribuire alla letteratura un potere politico di contestazione, riconoscendo la sua assimilazione all’interno dell’industria culturale e assorbendo la problematica dell’origine in quella – già avviata nella stessa Histoire de la folie e affrontata nella tesi complementare riguardante l’Antropologia dal punto di vista pragmatico di Kant – delle condizioni di possibilità storicamente determinate in cui ogni discorso si trova concretamente collocato (pp. 87-125). Dall’inizio degli anni settanta, Foucault si dedica a una forma di militanza “sul campo”, ed è ormai interessato a un’analisi delle pratiche discorsive tutta rivolta al loro effettivo funzionamento sociale. Vediamo sempre meglio come il lavoro di Foucault, non privo di coerenza e continuità, fosse tuttavia maggiormente interessato a riesaminare continuamente i propri presupposti, piuttosto che ad avvalorare e consolidare risultati già acquisiti. Una metodologica etero-affezione ha reso la produzione teorica del filosofo di Poitiers, oltre che il risultato di numerose e contrastanti influenze, una riflessione e un’indagine costantemente sollecitate dalle contraddizioni del presente e votate a problematizzare le pericolose e strumentali evidenze dell’ordine discorsivo vigente. Arrivati agli anni settanta troviamo il Foucault genealogista, il quale si richiama principalmente, ma non solo, al Nietzsche della Genealogia della morale. In questi anni, Foucault rielabora il tema della volontà di potenza mettendo in risalto la questione della volontà di verità propria dell’universalismo occidentale. Declina così l’armamentario distruttivo della filosofia nietzschiana in una critica delle relazioni di potere che l’uso politico della verità produce e nasconde, operando uno smascheramento della pudenda origo delle attuali e tra loro connesse pratiche mediche, psichiatriche, giuridiche, carcerarie (pp. 108-162), che a breve lo condurrà verso le tematiche della biopolitica. Di là dalle oscillazioni nietzschiane in merito al sapere scientifico, e nonostante la persistente volontà di denudare non solo le strumentalizzazioni politiche dei saperi, ma anche la loro stessa genesi strumentale all’interno di spazi abitati da rapporti di forza, Foucault, secondo l’autore, matura gradualmente un atteggiamento più aperto nei confronti del metodo scientifico. Elaborando una nozione storica di verità di matrice prevalentemente epistemologica, e dunque legata al carattere aperto, provvisorio, discontinuo, del sapere empirico, Foucault si rivolge ora a un Nietzsche più “illuminista” che romantico, maestro di un razionalismo critico e autocritico più che di una rivolta dionisiaca. L’inattualità nietzschiana è ricondotta all’interno di una traccia della filosofia moderna aperta dall’interpretazione kantiana dell’Aufklärung, da Foucault definita filosofia critica. In essa, il filosofo accomuna – oltre a Kant e Nietzsche – Hegel, la Sinistra hegeliana, Marx, Weber, Husserl, la Scuola di Francoforte, Lukács, un certo filone dell’epistemologia storica francese che culmina in Georges Canguilhem; ed è di questa tradizione moderna che Foucault intende farsi erede. Tale ethos critico introdotto dall’Aufklärung – e che negli anni sessanta veniva già attribuito allo strutturalismo – assume la pratica filosofica come compito diagnostico, come incursione trasversale nel presente, come diapason volto a interpellare e utilizzare la storia per individuare e produrre delle crepe all’interno delle relazioni di potere e delle loro forme di legittimazione, nelle quali possa inserirsi il «travaglio paziente che dà forma all’impazienza della libertà» (pp. 141-180). Il rapporto di Foucault con Nietzsche è stato giudicato da molti come la spia di un ripiegamento individualista all’interno del progetto moderno e progressista di emancipazione universale dell’umanità. Sebbene non sia certo questa la sede per affrontare tale questione nella sua complessità, notiamo come anche su questo punto il quinto capitolo del libro (pp. 181-224), nel quale Righetti evidenzia nello specifico l’utilizzo di problematiche e imbeccate nietzschiane nella lettura foucaultiana dell’Antichità greco-romana, offra un chiarimento rispetto a frequenti e approssimative generalizzazioni. Attraverso l’analisi del secondo e del terzo volume della Histoire de la sexualité (Le souci de soi e L’usage des plaisirs), e degli ultimi corsi al Collège de France (L’herméneutique du sujet, Le gouvernement de soi et des autres, Le courage de la vérité), emerge in vario modo come nella epimeleia heautou e nelle pratiche ascetiche tra platonismo e stoicismo, ma anche nella parrhesia dei cinici, Foucault ricercasse degli insegnamenti utili al lavoro dell’individuo su se stesso, intendendo però l’individuo come una soggettività costitutivamente relazionata[3]. È proprio in virtù dell’essere in relazione che l’individuo pensato da Foucault dovrebbe perseguire il compito – costruendosi dall’interno e non solo sottomettendosi a una legge esteriore – di farsi vettore di quella che potremmo definire un’etica del limite e della critica che informi i rapporti tra individui e gruppi sociali[4]. Una critica consapevole della propria parzialità e capace di riconoscere anche l’utilità dei meccanismi di riconoscimento insiti in alcune relazioni di potere, ma che non per questo rinunci a infrangere ogni forma di falsa e dispotica necessità. In queste ultime ricerche, Foucault si cimenta in un esercizio interpretativo molto diverso dall’approccio prevalentemente decostruttivo delle sue precedenti ricerche storiche. Non propone, infatti, un’indagine genealogica volta esclusivamente a evidenziare la provenienza contingente di saperi e modelli soggettivi percepiti come naturali e immutabili; non si tratta solamente di acquisire una consapevolezza critica e liberatoria nei confronti del passato, sebbene si tratti anche di questo. Foucault crede di rintracciare in alcune delle elaborazioni teoriche degli Antichi – nel loro essere inseparabili dalle pratiche di vita, dai comportamenti, dalle forme di esistenza – delle tecniche del sé che conservano un valore positivo per il presente. Non si tratta certo di trasporre forme di soggettività storicamente situate in un contesto attuale infinitamente diverso, ma di cogliere delle ispirazioni, degli esempi, di un’etica sperimentale ancora non irreggimentata in una morale imposta dall’esterno, in un dover essere ipostatizzato, che andrà invece in vario modo imponendosi con il potere pastorale cristiano e con la normalizzazione biopolitica moderna. Ancora una “cassetta degli attrezzi”, che possa ulteriormente stimolare non solo una libertà negativa capace di svincolarsi dalle relazioni di potere, ma anche una libertà positiva, un’estetica dell’esistenza, una spiritualità – che secondo il parere di Foucault trova posto anche in certe figure della filosofia moderna che anni prima venivano sovente da lui stesso screditate (come Hegel o Husserl) – mediante la quale il soggetto possa inventarsi e trasformarsi, stilizzando il proprio rapporto con sé e con gli altri secondo forme non definibili a priori, e senza imporre, o lasciare che venga imposto, un modello cui conformarsi. Anche in questo caso, Foucault trae liberamente spunto dalle figure nietzschiane dello spirito libero, del viandante (rilegge in questo senso Umano troppo umano e la Gaia Scienza, o ancora lo Zarathustra), discostandosi dalle valutazioni della filosofia socratica e post-socratica avanzate da Nietzsche nella Nascita della tragedia (ma anche altrove) che lui stesso aveva ripreso in Histoire de la folie, e – ci permettiamo di aggiungere – filtrando il discorso nietzschiano da ogni ipoteca aristocratica o biologista. Il primo capitolo del libro (pp. 13-44), fornendo alcune coordinate fondamentali della lunga e intricata vita postuma di Nietzsche in Francia, è molto utile a rilevare la capacità di Foucault di inserirsi in modo originale nella ricezione francese dell’opera del filosofo tedesco, sia traendone profitto sia smarcandosene, a seconda delle fasi. Queste pagine sono essenziali per comprendere quanto il nietzschianismo della generazione di intellettuali francesi degli anni sessanta e settanta (Foucault, Derrida, Deleuze), se da una parte ha beneficiato del prezioso incentivo dell’edizione critica dell’opera di Nietzsche resa disponibile dal lavoro di Colli e Montinari – curata in francese proprio da Foucault e Deleuze, e che certo faceva molta chiarezza sulla gestione e mitizzazione germanica dell’opera postuma assemblata nella Volontà di potenza –, d’altro lato si radicasse in un dialogo con Nietzsche che, in terra francese, si svolgeva con intensità almeno dall’inizio del secolo, e già prima dell’opera di Bataille trovava spazio in ambito socialista. A questo proposito è molto interessante la figura di Charles Andler – oltre a quelle di Desrousseaux, Jaurès o Palante –, il quale negli anni venti stilava numerosi e pregevoli scritti su Nietzsche, e nel 1925 traduceva il Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels. Compiuto questo breve attraversamento del testo, ci soffermeremo su alcuni punti dell’interpretazione di Righetti, raccogliendone le sollecitazioni e cercando di instaurare un dialogo con l’autore. Molto convincente e condivisibile ci pare l’intento di evidenziare il razionalismo critico che Foucault elabora, con sempre maggior chiarezza, nel corso degli anni sessanta e settanta, esaltando l’aspetto anti-dogmatico del sapere scientifico (pp. 166-180). I saperi scientifici sono trattati da Foucault sotto molteplici prospettive: come strumento di potere, nella produzione di nuovi oggetti e nuove forme esclusive di ordine discorsivo e sociale, in relazione dunque a determinate politiche della verità (le implicazioni delle scienze umane e biologiche con le pratiche disciplinari e biopolitiche: Sorvegliare e punire, La volontà di sapere, “Bisogna difendere la società”, Nascita della biopolitica); come espressione di determinate condizioni materiali (la visibilità e la spazialità in Nascita della clinica e Sorvegliare e punire)[5]; come strumento di demistificazione ideologica (la biologia di Jacob, come ultimo contributo alla disillusione nei confronti dell’antropocentrismo[6], o quella di Jacques Ruffié, in cui i princìpi di differenziazione e confluenza giocano contro le identità chiuse delle rivendicazioni razziste[7]). Tutti aspetti che Righetti, a parte questi nostri esempi, affronta diffusamente (cap. 4). Sarebbe interessante proseguire quest’analisi sulla “filosofia della scienza” di Foucault. Le sue riflessioni si svolgono in svariate direzioni, ma un aspetto costante della sua epistemologia è quello di considerare l’errore – assieme a Bachelard e Canguilhem, come a Nietzsche e Heidegger, ma potremmo aggiungere anche Hegel, Kant e Spinoza – inseparabile dalla verità e dalla sua ricerca (pp. 162-180). Questa concezione, che attraversa l’intera opera foucaultiana, ha comportato, forse inevitabilmente, una serie di difficoltà e ambiguità. Spesso in Foucault il sapere positivo retroagisce su se stesso, divenendo lo spunto empirico per una riflessione filosofica che si ripercuote sullo statuto della scientificità stessa. Già nel 1957 Foucault interpretava l’inconscio freudiano secondo questa problematica duplicità, cioè come «rivendicazione di una positività dell’uomo allo stesso livello in cui fa esperienza della sua negatività». Così, la psicologia «non può essere che il rovescio negativo e mitologico di una pratica reale, da una parte, e, dall’altra, l’immagine capovolta in cui si rivela e al contempo si nasconde un sapere effettivo»[8]. In questa stessa direzione, Foucault affermava nel 1961, citando Freud stesso, che Copernico, Darwin e la psicoanalisi hanno rappresentato «les trois grandes frustrations imposées par le savoir européen au narcissisme de l’homme»[9], aggiungendo ad essi, successivamente, gli studi bio-chimici di Jacob. Questi ultimi, facendo dell’individuo un epifenomeno rispetto all’erranza del DNA, mostrerebbero «tutto ciò che è stato necessario alla scienza sapere e tutto ciò che questo sapere costa al pensiero»[10]. È così che la biologia moderna, secondo la dialettica canguilhemiana tra conoscenza della vita e vita della conoscenza, e nel suo negare ogni stabile “natura” dell’uomo, «ci sottrae proprio ciò che, da tanto tempo, aspettavamo da lei, vale a dire la vita stessa nel suo segreto»[11]. Lo stesso vale per le scienze strutturaliste, che scoprono l’uomo abitato dall’esteriorità (la dissoluzione dell’uomo dell’etnologia di Lévi-Strauss, insieme alle implicazioni “anti-umaniste” della linguistica e della psicoanalisi, ricostruita e ripensata nel suo a priori storico in Le parole e le cose), e in tale duplicità assumono il ruolo positivo di contro-scienze (rispetto alle scienze umane): scienze dell’inconscio che «si indirizzano verso ciò che, fuori dell’uomo, consente di sapere, in forma positiva, quello che si dà o si sottrae alla sua coscienza»[12]. E anche la stessa storiografia foucaultiana vive di questa duplicità spiazzante, quale finzione consapevole che al tempo stesso propone un oggetto del sapere, una positività empirica, ed evidenzia il limite storico all’interno del quale possono funzionare le nostre oggettivazioni. Un sapere storico che è contemporaneamente una critica del sapere che lo lega alla sua storicità. Come ebbe a dire lo stesso Foucault, il paradosso delle sue ricerche consiste nel «dire la verità affinché essa sia attaccabile»[13]. Ciò che può apparire inquadrabile in modo parzialmente diverso, rispetto alla lettura di Righetti, riguarda la periodizzazione dell’approccio alla scienza e alla razionalità presente in Foucault. Alcuni aspetti della sua prima produzione rendono problematica la sovrapposizione dei diversi usi di Nietzsche a delle fasi del pensiero foucaultiano. Sebbene l’attenzione al filosofo tedesco riguardi, di volta in volta, aspetti diversi della sua opera, e sebbene la dimensione del dionisiaco venga a giocare un ruolo molto diverso dopo i primi anni sessanta, questo non implica l’apparire di posizioni totalmente inedite. Gli spostamenti teorici di Foucault non negano la presenza di tracce di fondo costanti, di nodi concettuali sufficientemente ampi da contenere il ventaglio di idee, ricerche, polemiche, successivamente affrontate. La stessa valenza critica del sapere scientifico e della sua metodologia, in quanto ricerca incessante e mai stabilizzata su nozioni definitive, veniva espressa già negli anni cinquanta: Di fatto, in tutti gli ambiti della conoscenza si è prodotto un avvenimento che ha spostato verso nuovi orizzonti la scienza contemporanea: la conoscenza ha cessato di dispiegarsi nei soli elementi del sapere per diventare ricerca; in altri termini, si è separata dalla sfera del pensiero in cui trovava la sua patria ideale per prendere coscienza di sé come percorso all’interno di un mondo reale e storico in cui si sommano tecniche, metodi, operazioni e macchine. La scienza non è più un cammino di accesso all’enigma del mondo, ma il divenire di un mondo che ora non è altro che una sola e identica cosa con la tecnica realizzata. Cessando di essere solamente sapere per diventare ricerca, la scienza scompare come memoria per diventare storia; non è più un pensiero ma una pratica, non più un ciclo chiuso di conoscenze, ma, per la conoscenza, un cammino che si apre proprio là dove si arresta[14]. Righetti sottolinea giustamente le differenze tra Le parole e le cose e Storia della follia quanto a una diversa ricollocazione del tragico in relazione alla finitudine, quale nodo fondamentale dell’episteme moderna (pp. 107-108). Ma sappiamo che le problematiche aperte nella modernità dal pensiero kantiano, approfondite in Le parole e le cose, si trovano già esposte nell’Introduzione all’Antropologia di Kant del 1961, e animano anche lo schema dello sviluppo storico proposto nella contemporanea Storia della follia. Quest’ultima presuppone la lettura di Kant condotta nella tesi complementare, e con essa l’avvenuto delineamento della problematica antropologica. Le disavventure moderne della follia sono la conseguenza della chiusura del “cerchio antropologico”, costituitosi dopo la fase dell’âge classique e la nascita del sapere medico-psichiatrico, all’interno del quale il folle si trova ingabbiato nel circolo dell’alienazione (intesa qui come mancanza-perdita e possibilità di recupero-riconciliazione). Troviamo perciò le basi dello stesso problema che sarà approfondito in Le parole e le cose, dove Foucault descrive la struttura epistemica costituitasi, dopo Kant, attorno al nuovo oggetto “uomo”. Anche in Storia della follia, benché vi sia il riferimento a una dimensione originaria successivamente riconsiderata, a una “profondità” della follia (come nota anche Blanchot, cfr. pp. 75-76), l’assenza d’opera, il richiamo tragico a una condizione irrimediabilmente perduta, rappresentano un’esperienza storicamente determinata della follia. Al termine delle dense pagine sul Neveu de Rameau, Foucault scrive: Questa esperienza della sragione, restata in parte nell’ombra, si è conservata sordamente a partire dal Nipote di Rameau fino a Raymond Roussel e ad Antonine Artaud. Ma se si tratta di rendere chiara la continuità, bisogna liberarla delle nozioni patologiche di cui la si è coperta. Il ritorno all’immediatezza nelle ultime poesie di Hölderlin, la sacralizzazione del sensibile in Nerval, non possono offrire che un significato alterato e superficiale se si cerca di comprenderli a partire da una concezione positivistica della follia: bisogna chiedere a questo momento della sragione in cui essi sono posti il loro vero significato, poiché solo dal centro stesso di tale esperienza della sragione che è la loro condizione concreta di possibilità si possono comprendere i due movimenti di conversione poetica e di evoluzione psicologica[15]. Evidente il compito razionale insito in queste intenzioni – studiare l’âge classique (e il rapporto ragione-sragione da essa costituito) come condizione storica da cui sono potute sorgere la psichiatria e la psicologia moderne così come l’esperienza “folle” della parola letteraria moderna –, il quale si affianca alla valorizzazione della forza vitale del dionisiaco, ma senza alcun appello unilaterale all’immediato. Con questo si intende porre l’accento su come il razionalismo critico, che ha animato l’opera di Foucault in modo più evidente tra gli anni sessanta e settanta, più che una svolta rispetto alla messa in risalto del dionisiaco dei primi anni sessanta (cfr. capp. 2 e 4, e nello specifico pp. 87-94, 108, 140, 150-152), possa apparire un aspetto costante, sebbene interessato da rivisitazioni e decantato rispetto a certe influenze “letterarie”. Righetti accenna ad alcune continuità tra Storia della follia e Le parole e le cose (p. 87), così come alla rilevanza dell’Introduzione all’Antropologia di Kant (pp. 100-101), ma ci pare si possa insistere maggiormente su questo punto, se è vero, come crediamo, che quella permanenza interessa dei pilastri cruciali dell’intera ricerca foucaultiana, quali sono i problemi del trascendentale, del soggetto e della razionalità. Alla ragione positivista non si contrappone solamente l’esperienza irriducibile della follia, ma anche un lavoro di epistemologia storica, una ragione critica nel senso tutt’altro che irrazionale di Kant (nella forma di una “critica della ragione antropologica”[16]), votata all’esame dei propri limiti e capace di rapportarsi ai propri lati oscuri senza negarli e assorbirli totalmente sotto una luce cartesiana. Del resto, lo stesso Foucault, nella nota intervista con Duccio Trombadori, parla di come, sin dalla sua prima formazione, si fossero avvicendati l’interesse per la tradizione epistemologica francese e quello per Nietzsche, nella comune messa in discussione del soggetto cartesiano[17]. Perciò la critica al soggettivismo ha sempre avuto una forte matrice “razionalista” (di quel particolare “razionalismo allargato” che attraversa l’epistemologia storica come certa fenomenologia francese), e corre parallelamente alla cifra più marcatamente letteraria dei lavori degli anni sessanta a partire dalla Storia della follia, la quale non intendeva essere, come Foucault ha ribadito più volte, un nuovo, e inevitabilmente contraddittorio, “elogio della follia”[18]. Al termine dell’opera, Foucault parla di «astuzia e nuovo trionfo della follia» – con un richiamo ironico a Hegel, pur molto presente in Storia della follia –, in quanto le “opere assenti” della follia provocano, anche nella sua fase di più pressante sopraffazione, «una domanda senza risposta […] una lacerazione senza rimedio in cui il mondo è obbligato a interrogarsi», e richiedono così di «render ragione di questa sragione e a questa sragione»[19]. Davanti alla follia, la ragione avrebbe il dovere di interrogare se stessa, non di cancellarsi, e allo stesso modo l’alterità assoluta cui si trova consegnata la follia non è solo un valore da difendere, ma, in quanto esclusione dalla società e dal discorso, essa è anche la sua condizione storica tardo-moderna che si tratta di comprendere e combattere. Tutto il testo di Foucault cerca di ricomporre la frattura tra ragione e follia evidenziando la loro specularità dialettica, contro la graduale riduzione della follia a “malattia mentale”. La ragione, nella sua pretesa autonomia, non è che “l’altra forma della follia” (Pascal), prodotta nel gesto stesso della creazione della follia come altro da sé, come nulla (Descartes) contrapposto al proprio dominio, e la ragione critica ha il compito di indagare la genesi e le diverse forme di questa coappartenenza negata ma persistente. Sono solo piccole osservazioni che nulla tolgono al lavoro di Righetti, e semmai, a partire dalla condivisione del taglio interpretativo volto a far risaltare l’impegno razionale foucaultiano, intendono retrodatare quest’ultimo di qualche anno, vista la già presente centralità del rapporto con la critica kantiana e con il sapere scientifico, e nonostante gli spostamenti teorici che l’autore esamina accuratamente. Certamente tra gli “interpreti” più originali di Nietzsche, Foucault ha saputo declinare attivamente il suo pensiero oltre una contrapposizione tra razionalismo e irrazionalismo, nel compito più alto – condiviso, nonostante certe forti differenze, con i francofortesi – di un illuminismo capace di farsi illuministico verso se stesso[20]. Cioè nel segno – consegnato anche a noi, ancora ingabbiati tra “debolisti” e “neo-realisti” – di un razionalismo autocritico, aperto alla considerazione della propria soglia storica, del proprio limite, inteso come radicamento in un tessuto di pratiche, in una verità quale evento concreto (o intreccio di eventi) dentro la cui stoffa il soggetto si costituisce, e a partire dal quale si aprono le sue possibili forme di esperienza (cfr. p. 111). In un passo citato da Righetti (p. 166), Foucault afferma: Una scienza non potrebbe essere analizzata o concepita un po’ come un’esperienza, cioè come un particolare rapporto che si stabilisce in modo tale che il soggetto stesso dell’esperienza si trovi ad essere modificato? […] E la radice storica di una scienza non si ritroverebbe proprio in questa genesi reciproca del soggetto e dell’oggetto? Qual è l’effetto di verità che in questo modo si produce? Ne conseguirebbe che non si dà una sola verità. E ciò non comporta l’affermazione di una storia irrazionale, né tanto meno dell’illusorietà di una scienza: al contrario, ciò conferma la presenza di una storia reale e intelligibile, di una serie di esperienze collettive razionali, che rispondono a un insieme di regole ben precise, identificabili, nel corso delle quali si costruisce tanto il soggetto conoscente quanto l’oggetto conosciuto[21]. Qui troviamo forse un possibile modo di intendere l’ambiguità della parrhesia foucaultiana. «Dire la verità affinché essa sia attaccabile» significherebbe “analizzare” la verità-evento in modo tale da contestare la fissità di ogni verità-oggetto[22]. La verità-evento è l’intreccio di processi storici, pratici, politici, epistemici, come tale né vero né falso, all’interno del quale possono essere operate le specifiche demarcazioni “oggettive” tra il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, il normale e il patologico[23]. Questo non significa privare tali figure della verità di ogni senso e consistenza, opponendo ad esse una verità senza riserve o un relativismo scettico, ma riportarle alla loro complessa dimensione temporale, alla loro genesi storica e dunque al loro carattere condizionato e modificabile. Problema di lunga data nell’epistemologia francese, già presente, per certi versi, in Poincaré e Duhem[24], i quali rimarcavano come la storicizzazione delle categorie non potesse comportare l’identificazione della convenzionalità delle regole e dei princìpi della ricerca scientifica con l’arbitrio del ricercatore, riducendo in tal modo la contingenza del sapere scientifico a fattori puramente soggettivi. Canguilhem approfondirà questo problema ben oltre la prospettiva kantiana propria di quegli autori, servendosi di Nietzsche per rifiutare l’opposizione tra verità e apparenza, data l’assenza di una dimensione ultima, universalmente fondativa, soggiacente alla vita storica della verità[25]. E, su questi punti, Righetti attribuisce la dovuta rilevanza al rapporto tra Foucault e Canguilhem[26], nel ritenere la scienza «une activité du vivant»[27], utilizzando così Nietzsche per pensare una teoria antimetafisica della scienza che ne riconosca i limiti senza pervenire al rifiuto di essa: «Pourquoi la science, fille de la peur de la vie, ne pourrait-elle pas être, comme détermination des limites de la vie, acceptée par la vie et utilisée courageusement par la vie ? Qu’est-ce qu’un pouvoir sans lucidité sur ses limites ?»[28]. Per Foucault, la domanda centrale del pensiero critico è sempre stata: «Che ragione è questa che noi utilizziamo? Quali sono i suoi limiti e i suoi pericoli? Come possiamo esistere in quanto esseri razionali, fortunatamente destinati a praticare una razionalità che è sfortunatamente attraversata da pericoli intrinseci?» E la sua risposta era la seguente: Dobbiamo restare quanto più vicini possibile a questa domanda, tenendo ben in mente che essa è, al tempo stesso, centrale ed estremamente difficile da risolvere. D’altronde, se è estremamente pericoloso dire che la ragione è il nemico che dobbiamo eliminare, è altrettanto pericoloso affermare che ogni discussione critica di questa razionalità ci esponga al rischio di scivolare nell’irrazionalità. Non bisogna dimenticare – e non dico questo per criticare la razionalità, ma per mostrare fino a che punto le cose siano ambigue – che il razzismo fu formulato sulla base della razionalità sfavillante del darwinismo sociale, divenendo così uno degli ingredienti più duraturi e persistenti del nazismo. Si trattava di un’irrazionalità, certo, ma di un’irrazionalità che, al tempo stesso, costituiva una certa forma di razionalità. Questa è la situazione in cui ci troviamo e contro la quale dobbiamo lottare. Se gli intellettuali in generale hanno una funzione, se il pensiero critico stesso ha una funzione, se la filosofia ha una funzione all’interno del pensiero critico, è esattamente quella di accettare questa sorta di spirale, questa specie di porta girevole della razionalità che ci rinvia alla sua necessità, a ciò che essa ha di indispensabile, e al tempo stesso ai pericoli che contiene[29]. Le questioni appena sollevate potrebbero suggerirci di evitare contrapposizioni di principio tra moderni e “post-moderni”, realisti e relativisti[30], così come gli aspetti della vicenda nietzschiana francese, trattati nel primo capitolo, potrebbero motivare una storicizzazione del dissidio tra marxisti e “nietzschiani”. Di là da queste opposizioni frontali, sarebbe preferibile servirsi di Foucault per rilanciare, assieme all’ethos critico, le esigenze di emancipazione e convivenza collettive, per ricercare fisionomie sociali che sappiano contrastare e superare, insieme ad ogni forma di dominio e sfruttamento, anche modelli di eguaglianza puramente formali, massificanti, autoritari, privi di quella che abbiamo chiamato un’etica del limite, e quindi di una concreta etica del sapere e del riconoscimento. In questa direzione, difficile a farsi e a pensarsi, pur lasciando spazio a critiche e ampliamenti di prospettiva, andrebbe riconosciuta la ricchezza e la sfaccettata polivalenza dell’opera di Foucault, come il libro di Righetti aiuta certamente a fare. [1] Cfr. J. Rehmann, I nietzscheani di sinistra. Deleuze, Foucault e il postmodernismo: una decostruzione, a cura di S. G. Azzarà, Odradek, Roma 2009. Da tutt’altra prospettiva, nella quale si riconoscono alcuni limiti di Foucault nel suo non esser stato sufficientemente nietzschiano (quanto ai temi del corpo e della natura umana), e che qui non abbiamo lo spazio per commentare, cfr. S. Berni, Nietzsche e Foucault. Corporeità e potere in una critica radicale della modernità, Giuffré Editore, Milano 2005. [2] Cfr. per esempio S. Righetti, Letture su Michel Foucault. Forme della “verità”: follia, linguaggio, potere, cura di sé, Liguori Editore, Napoli 2011 (nello specifico pp. 22-43). [3] A questo proposito, non andrebbe dimenticato che Foucault ebbe tra i suoi maestri un filosofo dell’intersoggettività come Maurice Merleau-Ponty. Ricordiamo, in merito al rapporto tra i due filosofi, un altro testo di Righetti: Soggetto e identità. Il rapporto anima-corpo in Merleau-Ponty e Foucault, Mucchi Editore, Modena 2006. [4] Sul tema del riconoscimento negli ultimi corsi di Foucault, e nella sua nota ascendenza hegeliana, cfr. M. Fimiani, Erotica e retorica. Foucault e la lotta per il riconoscimento, Ombre corte, Verona 2007. [5] Su questi aspetti ci pare di notare uno scarto rispetto all’interpretazione di Berni, la cui preferenza per Nietzsche rispetto a Foucault sarebbe motivata da una presunta priorità, in quest’ultimo, del linguaggio (dovuta secondo l’autore a una preponderante influenza heideggeriana), e dunque del sapere, rispetto alle relazioni di potere, le quali diverrebbero un derivato dell’ordine discorsivo (cfr. S. Berni, Nietzsche e Foucault, cit., pp. 185-219). Nel concetto di dispositivo, ci sembra invece di rilevare un rapporto biunivoco tra i due fattori. Inoltre, sia in Sorvegliare e punire che in La volontà di sapere, oltre che in alcune interviste e ancora nella Storia della follia, dove il grande internamento è il presupposto per la nascita del sapere psichiatrico, Foucault pone esplicitamente la pre-condizione del sapere negli spazi e nelle relazioni sociali, a loro volta modificati in funzione dell’istituirsi di certe conoscenze. [6] Cfr. M. Foucault, Crescere e moltiplicarsi (DE n. 81, 1970), in M. Foucault, Discipline, poteri, verità. Detti e scritti 1970-1984, Marietti, Genova-Milano 2008, pp. 7-13. [7] Cfr. M. Foucault, Bio-storia e bio-politica (DE n. 179, 1976), in M. Foucault, Discipline, poteri, verità, cit., pp. 84-86. [8] M. Foucault, La ricerca scientifica e la psicologia (DE n. 3, 1957), in M. Foucault, Follia e psichiatria. Detti e scritti 1957-1984, Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 39. Continua Foucault: «Arriviamo così al carattere proprio della ricerca psicologica: una ricerca che dimostra a se stessa il suo specifico carattere scientifico attraverso il gioco di metodi e concetti che essa prende a prestito come tali da altri ambiti scientifici e di cui distrugge così l’oggettività interna. Nella ricerca psicologica non c’è dunque oggettività autoctona, ma solo dei modelli trasposti da oggettività vicine e che delimitano dall’esterno lo spazio d’azione dei miti di una psicologia carente di oggettività e il cui solo lavoro effettivo consiste nella distruzione segreta e silenziosa di tali oggettività» (ivi, p. 42). [9] M. Foucault, Alexandre Koyré : La Révolution astronomique, Copernic, Kepler, Borelli (DE n. 6, 1961), in M. Foucault, Dits et écrits I, 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, p. 198. Foucault ripete la citazione anche in Nietzsche, Freud, Marx (DE n. 46, 1967), in M. Foucault, Archivio Foucault 1, 1961-1970. Follia scrittura, discorso, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 139-140. [10] M. Foucault, Bio-storia e bio-politica, cit., p. 13. [11] Ivi, p. 11. [12] M. Foucault, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, Gallimard, Paris 1966; trad. it. Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 2004, pp. 400-413. [13] M. Foucault, Precisazioni sul potere: risposta ad alcuni critici (DE n. 238, 1978), in M. Foucault, Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, Mimesis, Milano 2005, p. 39. Altrove Foucault afferma: «Fare la storia dell’“oggettivazione” di quegli elementi che gli storici considerano come dati oggettivamente (l’oggettività delle oggettività, se così si può dire), è proprio questa specie di cerchio che vorrei percorrere. Un “imbroglio” insomma, dal quale non è facile uscire: ecco senza dubbio ciò che imbarazza e irrita, molto più di quanto non potrebbe farlo uno schema che sarebbe sempre facile riprodurre»; M. Foucault, Perché la prigione? Quattro risposte di Michel Foucault (DE n. 278, 1980), in M. Foucault, Poteri e strategie, cit., p. 88. [14] M. Foucault, La ricerca scientifica e la psicologia, cit., p. 40. Molto visibile qui il debito verso il razionalismo applicato di Bachelard (cfr. G. Bachelard, Le rationalisme appliqué, PUF, Paris 1949; trad. it. Il razionalismo applicato, Dedalo, Bari 1975), attraverso il quale è possibile rilevare una fondamentale distanza da Heidegger rispetto al tema della tecnica. Anche la valenza epistemologica dell’errore si trova esplicitamente espressa già nel 1961, nella succitata recensione al testo di Koyré. [15] M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, Plon, Paris 1961; trad. it. Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 2008, p. 292. [16] M. Foucault, Introduction à l’Anthropologie, in I. Kant, Anthropologie du point de vue pragmatique, Vrin, Paris 2008; trad. it. Antropologia dal punto di vista pragmatico, Einaudi, Torino 2010, p. 94. In questo scritto, come dicevamo, troviamo avviata quella riflessione che permetterà a Canguilhem di dire che Le parole e le cose rappresenta, «per le scienze dell’uomo, ciò che la Critica della ragion pura fu per le scienze della natura»; G. Canguilhem, Morte dell’uomo o estinzione del cogito?, in M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 436. [17] «Uno dei punti essenziali della mia formazione si ritrova anche nella riflessione sulla scienza, e sulla storia delle scienze. In un certo senso è un campo di problemi ben distante da quelli sollevati da Nietzsche, Blanchot, ecc. Ma fino a che punto? Quando ero studente la storia delle scienze, con i suoi problemi, si era venuta a trovare in una posizione strategica. I dibattiti teorici erano pressoché integralmente centrati sul tema della scienza: la si interrogava nel suo fondamento, nella sua razionalità, nella sua storia. Ciò avveniva da parte della fenomenologia, o da parte di quei fenomenologi che avevano sviluppato quel lato della riflessione husserliana diretto a interrogare i fondamenti e l’oggettività della conoscenza. Ma un discorso analogo proveniva anche dal campo marxista […]. Il marxismo infatti si proponeva come una scienza o almeno come una teoria generale della scientificità delle scienze… che avrebbe consentito di distinguere ciò che fosse scienza da ciò che fosse ideologia. […] Questo concentrato di problemi che ho sommariamente descritto – e in cui venivano a trovarsi storia delle scienze, fenomenologia, marxismo – era allora assolutamente centrale». E ancora, alla domanda su come la storia della scienza fosse intervenuta nella sua formazione, Foucault risponde: «Paradossalmente un po’ nello stesso senso di Nietzsche, Blanchot, Bataille. Ci si chiedeva: in che misura la storia della scienza può mettere in questione la sua razionalità, limitarla, introdurvi elementi esterni? Quali sono gli effetti contingenti che si immettono nella scienza dal momento che essa ha una storia, si sviluppa in una società determinata?»; D. Trombadori, Colloqui con Foucault, Castelvecchi, Roma 2005, pp. 47-49. [18] «Mi sono sforzato di mostrare come il mio lavoro non consistesse né in una specie di “apologia” della follia – questo va da sé – e neppure nell’affermazione di una storia dell’irrazionalismo. Al contrario, ho voluto indicare come quell’esperienza – che ha costituito la follia come oggetto, assieme al soggetto che la conosce – non la si potesse comprendere appieno che riferendola rigorosamente a certi processi storici ben noti: la nascita di una particolare società normalizzatrice, legata a pratiche di reclusione, a loro volta connesse a una precisa situazione economica e sociale, corrispondente alla fase dell’urbanesimo, alla crescita del capitalismo, con l’esistenza di una popolazione fluttuante, dispersa, tale da entrare in frizione con le esigenze dell’economia e dello Stato, ecc.» (ivi, p. 51). Si potrebbe sospettare che Foucault proponga una retrospettiva fuorviante alla luce di mutate posizioni teoriche, ma già nel 1961 forniva precisazioni su questo stesso punto: «Una delle obiezioni della commissione di tesi è stata appunto che avrei cercato di rifare l’Elogio della follia. Non è così tuttavia: ho voluto dire che la follia è divenuta oggetto di scienza solo nella misura in cui è stata destituita dei suoi antichi poteri… Ma, quanto a fare l’apologia della follia in sé, le cose non stanno così»; M. Foucault, La follia esiste solo all’interno della società (DE n. 5, 1961), in M. Foucault, Follia e psichiatria, cit., p. 47. [19] M. Foucault, Storia della follia, cit., p. 455. [20] «L’illuminismo stesso, divenuto padrone di sé e forza materiale, potrebbe spezzare i limiti dell’illuminismo»; M. Horkheimer e T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 223. [21] D. Trombadori, Colloqui con Foucault, cit. p. 50. In altro luogo, Foucault afferma: «Bisogna demistificare l’istanza globale del reale come totalità da restituire. Non esiste “il” reale da raggiungere a condizione di parlare di alcune cose più “reali” di altre, un reale che verrebbe perduto a profitto di astrazioni inconsistenti, qualora ci si limitasse a far comparire altri elementi e altre relazioni. […] Un tipo di razionalità, un modo di pensare, un programma, una tecnica, un insieme di sforzi razionali e coordinati, degli obiettivi definiti e perseguiti, degli strumenti per raggiungerli, e così via… tutto questo è ben reale, anche se non pretende di essere “la realtà” stessa, né la società nella sua interezza»; M. Foucault, La polvere e la nuvola (DE n. 277, 1980), in M. Foucault, Poteri e strategie, cit., p. 96. [22] È Foucault a parlare di una “analitica della verità” negli interventi sull’Aufklärung. Non possiamo affrontare adeguatamente, in questa sede, la questione del punto di vista speculativo di Foucault, dei problemi e degli intenti insiti in una “storia della verità” consapevolmente storica essa stessa, e quindi appartenente a configurazioni e a possibilità specifiche del sapere e del dire-vrai. [23] Su questi punti risulta particolarmente chiara la lezione inaugurale di Foucault al Collège de France: M. Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971; trad. it. L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972. [24] Autori mediante i quali, secondo Foucault, l’Aufklärung si è trasmessa in Francia come critica al positivismo; cfr. M. Foucault, Introduction par Michel Foucault (DE n. 219, 1978), in M. Foucault, Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, p. 432. [25] Cfr. G. Canguilhem, De la science et de la contre-science, in AA. VV., Hommage à Jean Hyppolite, PUF, Paris 1971, pp. 173-177. Sul punto va ricordato il frequente richiamo di Foucault a un pensiero antisostanzialista della superficie (per esempio in Nietzsche, Freud, Marx, ne L’archeologia del sapere, o in Nietzsche, la genealogia, la storia), in vari modi trattato dallo stesso Righetti (in particolare pp. 90-91). [26] Fondamentale a questo proposito è l’appena citata introduzione a Il normale e il patologico, scritta da Foucault nel 1978 e rivisitata poco prima della morte, nel 1984: cfr. M. Foucault, La vita: l’esperienza, la scienza (DE n. 361, 1985), in M. Foucault, Archivio Foucault 3, 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 317-329. [27] G. Canguilhem, De la science et de la contre-science, cit., p. 177. [28] Ivi, p. 180. Andrebbero aggiunte le cruciali questioni sollevate dalla fenomenologia di Husserl, dove la critica al “naturalismo” (e quindi al dualismo) scientifico si accompagna all’assunzione e allo studio della correlazione costitutiva (l’intenzionalità, l’a priori materiale) tra soggetto e oggetto. Ma i debiti, i fraintendimenti e le critiche che caratterizzano il rapporto di Foucault con la fenomenologia ci porterebbero ovviamente molto lontano. Basti qui evidenziare come anche in ambito fenomenologico – si pensi ancora, per la vicinanza diretta, al caso di Merleau-Ponty – si fosse mantenuto un dialogo fecondo tra filosofia e scienza, sebbene, a differenza di certi ambienti neokantiani, conservando l’esigenza di un ruolo distinto e critico della filosofia. Il che spiega anche l’inserimento, da parte di Foucault, della Crisi delle scienze europee tra i pilastri della tradizione critica. [29] M. Foucault, Spazio, sapere, potere (DE n. 310, 1982), in M. Foucault, Biopolitica e liberalismo, Edizioni Medusa, Milano 2001, pp. 183-184. [30] La categoria del “post-moderno” è quanto mai fuorviante nel caso di Foucault. Problema sul quale si è soffermato anche lo stesso Righetti, proponendo le linee di un confronto con Lyotard nel già citato Letture su Michel Foucault (pp. 68-105). Come esempi di una lettura di Foucault come post-moderno e anti-moderno, cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità. Dodici lezioni, Laterza, Roma–Bari 1988; il già citato J. Rehmann, I nietzscheani di sinistra. Deleuze, Foucault e il postmodernismo: una decostruzione; e quanto all’Italia, cfr. ad esempio P. Rossi, Paragone degli ingegni moderni e post-moderni, Il Mulino, Bologna 1989. Ma la proliferazione di discorsi attorno al post-moderno è chiaramente molto più ampia, e sappiamo come anche l’ultimo dibattito attorno al New-Realism proponga sovente la critica a un generico post-moderno, nel quale anche Foucault viene spesso inserito. Pare opportuno riportare il passo di un’intervista nella quale Foucault affronta molto lucidamente la questione: «Io non ammetto assolutamente l’identificazione della ragione con l’insieme delle forme di razionalità che, ad un certo momento, nella nostra epoca e ancora di recente, han potuto risultare dominanti negli ambiti in cui hanno prevalentemente luogo le applicazioni fondamentali della razionalità, vale a dire all’interno dei tipi di sapere, delle forme della tecnica, e delle modalità di governo e di dominio (tralascio il problema dell’arte per la sua complessità). Per me, nessuna forma determinata della razionalità coincide con la ragione. Quindi non vedo per quale ragione potremmo dire che le forme di razionalità che sono risultate dominanti all’interno dei tre ambiti di cui ho parlato starebbero per crollare e scomparire. Non vedo dissoluzioni di questo genere. Posso osservare, invece, molteplici trasformazioni, ma non capisco perché dovremmo chiamare tutto ciò un tramonto della ragione. Altre forme di razionalità nascono e si creano di continuo. Pertanto, l’affermazione secondo cui la ragione sarebbe una lunga narrazione giunta oggi al termine, per far posto ad un’altra narrazione che comincia, non ha secondo me alcun senso»; M. Foucault, Strutturalismo e post-strutturalismo (DE n. 330, 1983), in M. Foucault, Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, Einaudi, Torino 2001, p. 320. |