| Stampa | |
Prospettive foucaultiane è una nuova rubrica che si propone di problematizzare, da un punto di vista foucaultiano, libri che non sono né di Foucault né su Foucault. Per tale ragione, i contributi e i forum su questi testi non costituiscono in nessun modo delle recensioni (che prendono in considerazione un libro nella sua integralità e non si preoccupano di attraversarlo necessariamente a partire da una prospettiva che può essergli anche abbastanza esterna). Si tratta piuttosto dello sforzo di creare una tensione critica tra il pensiero di Foucault e una serie di materiali che da esso differiscono sotto diversi aspetti. L’auspicio è che da questo incontro possano scaturire nuovi interrogativi in grado di interpellare tanto i libri qui commentati, quanto lo stesso pensiero foucaultiano. Emanuele Leonardi Governare e punire. Interiorizzazione della colpa e governamentalità autoritaria A proposito di Maurizio Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013 (216 p.) L’ultimo, importante libro di Maurizio Lazzarato (Il governo dell’uomo indebitato, DeriveApprodi, 2013 – seguito del fortunato La fabbrica dell’uomo indebitato, DeriveApprodi, 2012), è già da qualche mese al centro del dibattito italiano, quantomeno negli ambienti del pensiero critico. L’hanno recensito e commentato figure note di questi milieux, come ad esempio Marco Bascetta (su Il manifesto)[1], Federico Chicchi (all’interno della versione online di Alfabeta2)[2] e Carlo Formenti (dalle pagine virtuali della rivista Kainos)[3]. Di conseguenza, tanto i meriti quanto i limiti del volume di Lazzarato sono stati attentamente passati in rassegna. Alla prima categoria appartengono senza dubbio un’originale lettura della funzione del debito nell’attuale congiuntura economica ed un’acuta dimostrazione dell’impossibilità del riformismo (keynesiano o meno che sia) nel mondo marchiato dalla finanziarizzazione dispiegata. In particolare, Lazzarato sottolinea come il debito non sia riducibile a mera categoria economica; esso si configura, piuttosto, come immediata tecnologia di governo in grado di integrare la funzione di controllo sociale operata dallo Stato (nella sua forma neoliberale) e l’interiorizzazione di una colpa che, sequestrando il futuro per mezzo di un’estensione indefinita del presente, si pone come conditio sine qua non dell’infinita riproposizione del rapporto di capitale. Assistiamo dunque ad un processo di “disgiunzione inclusiva” attraverso il quale le varie forme della colpa-debito vengono risucchiate dagli apparati di cattura, venendo in tal modo messe a valore. Secondo l’autore, il più efficace di questi apparati di cattura è rappresentato dall’imposta: «L’imposta assume un ruolo centrale dal punto di vista soggettivo, poiché si basa sull’espiazione della “colpa” rappresentata dal debito. Quando il debito è pubblico, non si onora e non si espia la propria colpa individualmente ma collettivamente, attraverso l’imposta che agisce come potente vettore della trasformazione di ciascuno in uomo indebitato» (p. 33). Il tracimare del debito-colpa fin nei recessi della soggettività contemporanea segnala sia la natura politica della sua produzione (nonché del suo governo), sia la pervasività ormai assoluta della finanza neoliberale (nessun ambito della vita può dirsi da essa indipendente, come dimostrano i fondi pensione o gli student loans). Laddove i circuiti del valore sono interamente sussunti alla finanza ed alla sua costitutiva instabilità, lo spazio di un’opzione riformista si riduce fino a scomparire, dando conto dell’impotenza ammantata di cinismo dei tecnocrati al potere: «Con la crisi assistiamo a una nuova versione del “pensiero unico”, caratterizzata da una rimozione del reale che non è semplicemente soggettiva. Esistono ragioni “oggettive” alla cecità e al cinismo delle nostre oligarchie: la preclusione dell’uscita dalla crisi attraverso un New Deal, l’impossibilità di qualunque riformismo. Le classi dirigenti non riescono a vedere le cause della crisi che pure stanno sotto i loro occhi, poiché “riformare” la finanza significherebbe banalmente mettere in discussione il capitalismo stesso» (p. 32). Va qui segnalato che la ricerca di Lazzarato suffraga ulteriormente le ipotesi avanzate da alcuni teorici del capitalismo cognitivo (tra gli altri Andrea Fumagalli, Stefano Lucarelli, Christian Marazzi e Carlo Vercellone) sulla natura produttiva – quindi non semplicemente parassitaria – della finanza e sul divenire-rendita del profitto – cioè sull’inclusione della sfera della riproduzione sociale nei processi di valorizzazione del capitale. Come anticipato, anche alcuni limiti della prospettiva elaborata ne Il governo dell’uomo indebitato sono già stati messi opportunamente in luce. Bascetta, ad esempio, ritiene che l’enfasi su categorie deleuzo-guattariane (elementi assiomatici, macchinici, semiotici) risulti eccessiva ed in ogni caso incapace di cogliere da un lato i potenziali di rivolta insiti nell’arbitrarietà del debito, dall’altro il cannibalismo del capitale finanziario, alla costante ricerca di nuovi territori da colonizzare. Chicchi, invece, nota come l’analisi del debito-colpa non tenga nel dovuto conto gli esiti più recenti di un filone della psicoanalisi lacaniana, legati in modo particolare alla tossicità dell’imperativo a godere ed alla progressiva evaporazione del padre – con conseguente depotenziamento della dimensione edipica della colpa, in quanto operatore identitario, a vantaggio di una forma di controllo esercitata per mezzo della jouissance consumistica. Infine, Formenti – di gran lunga il più critico dei commentatori qui considerati – rimprovera a Lazzarato «l’abdicazione di fronte alla sfida teorica di analizzare le mutazioni della classe operaia occidentale» (p. 3), implicita nell’affermazione secondo la quale la discriminante di classe non risiederebbe più nello iato tra capitalisti e salariati, bensì in quello tra creditori e debitori. Si tratta ora di affiancare a queste autorevoli riflessioni un’analisi della dimensione specificamente foucaultiana che caratterizza il testo di Lazzarato. Tale dimensione, mi pare, non si limita ad un riferimento costante ed approfondito al tema della governamentalità (elemento che segna il periodo “biopolitico” della produzione di Foucault [1975-1979]); essa si esplicita inoltre nell’attitudine a situare la cassetta degli attrezzi genealogica al livello della critica del presente. Bricoleur della filosofia politica, Lazzarato seleziona alcuni strumenti dall’armamentario di autori tanto diversi quanto possono esserlo Foucault e Pasolini, Schmitt, Aglietta e Orléan, Deleuze e Guattari, al fine non solo di indagare i regimi di verità che governano la Grande Crisi che dal 2007 non cessa di mordere, ma anche di individuare punti di resistenza per non soccombervi, nonché nuove armi per scardinarla. In particolare, in quel che segue vorrei porre l’attenzione su due punti: a) la critica per così dire “integrativa” mossa dall’autore all’analisi foucaultiana del liberalismo e del neoliberalismo in quanto arti di governo (con particolare riferimento al ruolo dello Stato); b) il cruciale rapporto tra Marx e Foucault, che tale critica mi sembra evocare. Per quanto riguarda la prima questione, Lazzarato riprende ed articola alcune riflessioni originariamente proposte in Le gouvernement des inégalités (2008)[4]. In esse si sostiene che, per quanto l’analisi condotta da Foucault nei cosiddetti corsi biopolitici della seconda metà degli anni settanta[5] abbiano mostrato con chiarezza quanto l’articolazione governamentale ponga sfera economica e sfera politica in condizione di indissociabilità, questa stessa analisi presenta il notevole limite di disinteressarsi del rapporto di capitale, ed in specifico della sua attuale configurazione monetaria (egemonia della moneta-debito e crisi della moneta commerciale). Se dunque, da un lato, Lazzarato riconosce a Foucault il significativo merito di aver riconosciuto il rapporto di complementarità asimmetrica tra Economico e Politico – rapporto che rimanda ad una mutua co-istituzione e rompe ogni reciproca esternità in quanto, sebbene i due campi siano ben lungi dall’identificarsi l’uno con l’altro, essi rimangono tuttavia impensabili al di fuori della relazione che li stabilisce –, dall’altro rinviene, nell’impostazione foucaultiana, l’incapacità di dar conto del passaggio dal capitalismo manageriale e industriale a quello azionario e cognitivo – passaggio che fa da contrappunto produttivo alla svolta soggettiva imposta dall’homo oeconomicus neoliberale al proprio predecessore liberale[6]. Si tratta di un rilievo condivisibile, anche e forse soprattutto alla luce della nuova consistenza che fornisce all’affermazione foucaultiana secondo la quale, nel contesto della governamentalità neoliberale, «si dovrà governare per il mercato, piuttosto che governare a causa del mercato» (NB, p. 112). Lazzarato mostra infatti come lo Stato contemporaneo si definisca esplicitamente come agente di creazione di ambienti neoliberali, come figura della conformità tra democrazia e mercato. In altri termini, l’integrazione dell’uomo indebitato nei circuiti di valorizzazione avviene tramite l’istituzione statale. Tuttavia, la funzione dello Stato non si esaurisce in questa messa in forma dei soggetti per il mercato: essa si rivela sempre più – soprattutto nel contesto della Grande Crisi – nella sua natura di coercizione punitiva. Scrive Lazzarato in uno dei passaggi più efficaci del volume: «La governamentalità non si limita più a incitare, sollecitare, favorire, poiché essa impone, vieta, norma, dirige, comanda, ordina e normalizza: tutte quelle funzioni che la “regolazione” securitaria dovrebbe escludere vengono adottate e gestite nella fase politica apertasi con la crisi del 2007. […] La crisi porta in primo piano l’esercizio sovrano e disciplinare in una società securitaria, insediando una governamentalità autoritaria» (p. 139). Ne discende che la forbice sociale che dagli anni settanta non smette di divaricarsi (quantomeno in Occidente) si accompagna non all’assottigliarsi del ruolo dello Stato (come vorrebbero gli ideologi neoliberali), bensì ad una ridefinizione dello stesso, sia in termini di trasferimento di quote di sovranità verso l’esterno (si prenda, per esempio, il caso dell’Unione Europea), sia attraverso l’inasprimento delle funzioni repressive interne (tra i tristemente numerosissimi casi, si considerino le politiche migratorie). La crisi non rappresenta altro che il momento di estrema recrudescenza di questo processo: lo Stato costringe a pagare coloro che non hanno prodotto il collasso, mentre arricchisce i responsabili del crollo. In ultima analisi, ne esce confermata l’immagine del mercato concorrenziale come regime di verità che non esita a mostrare la propria anima violenta: «Per liberare i mercati, la gestione neoliberista incatena la società, intervenendo in modo massiccio, invasivo, autoritario sulla vita della popolazione con la pretesa di governare ogni comportamento» (p. 108). Insomma: si governa certamente per il mercato, ma si governa (anche) punendo. Concludiamo con alcune note sul rapporto tra Marx e Foucault (mediato dall’autore per mezzo di un riferimento costante a Deleuze e Guattari) che, pur senza venire enunciato esplicitamente, ci pare funga da architrave dell’intera struttura del libro. L’individuazione di un terreno di convergenza tra l’analisi delle pratiche governamentali e la critica dell’economia politica rappresenta, infatti, la posta in gioco decisiva della ricerca di Lazzarato. Egli sceglie una strada diversa – ma complementare – rispetto a quella recentemente percorsa, con esiti di grande interesse, da Pierre Macherey[7]. Se il filosofo francese aveva tentato di sciogliere alcune questioni foucaultiane attraverso il ricorso a categorie marxiane (nello specifico, il nesso soggetto produttivo/lavoro vivo), posizionandosi quindi su di un piano interpretativo per così dire “interno” all’opera dei due autori, Lazzarato utilizza Deleuze e Guattari per annodare elementi teorici marxiani e foucaultiani al fine di gettar luce – e possibilmente benzina – sulle tensioni che percorrono il presente. Ne deriva un’interpretazione articolata del governo della Grande Crisi, in grado di far dialogare inedite dimensioni “soggettive” (il debito-colpa) con complesse dinamiche istituzionali (lo Stato come agente della governamentalità autoritaria). In ultima analisi, si tratta di un affresco spesso convincente, a tratti problematico, incessantemente ricco di spunti per i dibattiti a venire.
[1] Disponibile online qui (ultimo accesso 31/12/2013). [2] Disponibile online qui (ultimo accesso 31/12/2013). [3] Disponibile online qui (ultimo accesso 31/12/2013). [4] Cfr. M. Lazzarato, Il governo delle disuguaglianze. Critica dell’insicurezza neoliberista, Ombre Corte, Verona 2013. [5] Ma i riferimenti sono quasi esclusivamente a Nascita della biopolitica [1978-1979], Feltrinelli, Milano 2005. [6] Su questi temi, si veda l’eccellente contributo di Adelino Zanini, L’ordine del discorso economico. Linguaggio delle ricchezze e pratiche di governo in Michel Foucault, Ombre Corte, Verona 2012. [7] P. Macherey, Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx, Ombre Corte, Verona 2013. |