| Stampa | |
Valeria Gammella Oltre Kant. Dimenticare l’uomo per riscoprire il “coraggio della verità” Recensione di Raffaele Ariano, Morte dell’uomo e fine del soggetto. Indagine sulla filosofia di Michel Foucault, Rubettino, Soveria Mannelli 2014 (226 p.) In Morte dell’uomo e fine del soggetto Raffaele Ariano ripercorre la vicenda intellettuale di Michel Foucault alla luce del tema dell’uomo e della sua trasfigurazione filosofica nella sagoma del soggetto: tema che attraversa interamente la riflessione foucaultiana, ponendola, non a caso, in un dialogo ininterrotto con Kant. È dunque l’antropologia il problema con il quale Foucault è costantemente portato a fare i conti, come il nodo irrisolto della modernità occidentale e della sua stessa riflessione, che, come rileva Ariano, si pone su una sorta di crinale, nel momento in cui un certo modo di pensare smette di essere trasparente a se stesso, lasciando emergere questioni e criticità prima invisibili. È all’antropologia kantiana che Foucault dedica la sua tesi complementare di dottorato, ed è alla trattazione kantiana dell’Illuminismo che Foucault tornerà insistentemente negli ultimi anni. La sua Introduzione all’Antropologia di Kant, del 1964, intende fare il punto sull’evoluzione del pensiero kantiano nei venticinque anni in cui Kant continuò a tenere corsi di antropologia[1], e sulle “intersezioni” reciproche del lavoro critico con l’antropologia. Foucault vi scopre il rimando continuo e paradossale dell’antropologia alla critica e della critica all’antropologia, ovvero del piano del finito a quello del trascendentale e viceversa, questione che, come è noto, avrebbe trovato più ampio respiro ne Le parole e le cose (1966). In quest’ultima opera il tema dell’uomo matura in quello dell’anti-umanesimo, volto a denunciare la falsa assolutezza sotto la quale si è posta la figura del soggetto, in una istintiva repulsione per tutto ciò che l’Occidente ha incluso in essa: repulsione le cui ragioni sarebbero divenute esplicite solo a partire dagli anni settanta, nell’ambito della riflessione foucaultiana sul potere. Nel testo del 1966, Foucault si limita a riconoscere allo “stile di pensiero strutturalista” il merito di fornire un metodo in grado di fare a meno del riferimento costante alla coscienza, estendendo, dal canto suo, le acquisizioni anti-antropologiche dello strutturalismo a un campo del sapere in cui non erano ancora penetrate: la storia delle idee. L’archeologia diviene così il mezzo attraverso il quale usare la storia contro l’età della storia, le anti-scienze umane dello strutturalismo contro le scienze umane del pensiero antropologico. Il ricorso al concetto di episteme ne Le parole e le cose, d’altra parte, risponde precisamente a questa istanza anti-soggettivistica, per quanto pure sia stato talvolta recepito in senso opposto, come equivalente di “mentalità”, riportando l’archeologia del sapere nel tradizionale orizzonte delle totalizzazioni. Raccolte le critiche circa l’ambiguità del concetto, Foucault avrebbe presto raddrizzato il tiro, chiarendo come per episteme non intendesse l’unità sottesa alle diverse scienze di una data epoca, quanto l’insieme delle relazioni che si possono rintracciare tra le varie scienze di uno stesso momento storico quando le si analizza al livello delle regolarità discorsive. Così non sarebbe esistita un’unica episteme per ciascuna epoca, ma tante quante ne descrivono le regolarità ritracciabili tra gruppi di saperi. Ad esempio, il pensiero di Marx, considerato dal punto di vista del sapere economico, non rappresenta una rottura epistemologica, mentre, dal punto di vista del sapere storico, non può non apparire tale. Ne L’archeologia del sapere Foucault avrebbe in ultimo messo da parte il concetto di episteme, interessandosi piuttosto agli enunciati, alle formazioni discorsive (o discorsi) e alle pratiche discorsive, ovvero alle regole di formazione degli oggetti e del soggetto del discorso, nella specifica posizione in cui è posto. È qui che Foucault finisce per riconoscere nelle “pratiche discorsive” l’apriori storico dei discorsi che queste permettono di formulare, in una storicizzazione dell’apriori che marca tutta la distanza dalla critica kantiana e il senso stesso del riferimento ad essa. Se, per Kant, individuare un apriori nella formulazione dei giudizi serviva a elaborare un criterio cui i giudizi dovevano attenersi per essere validi, Foucault intende capovolgere proprio il carattere normativo di quest’impostazione, ancora troppo legata all’umanesimo. Per il filosofo francese è infatti una mistificazione fondare la validità dei giudizi sulla loro adeguatezza ad una regola trascendentale, perché i giudizi hanno una loro validità di fatto, o – potremmo dire – una loro efficacia naturale, per il solo fatto di esistere. I discorsi posseggono infatti la positività dell’evento, un evento che non è dominato dal soggetto. Presentare un apriori storico significa per Foucault affermare il carattere tutto empirico e diveniente di quelle regole di formazione e validità dei discorsi che erano a lungo apparse come trascendentali. Così Ariano ripercorre fedelmente le tappe della riflessione foucaultiana, dall’Archeologia del sapere ai temi della biopolitica e della sessualità – anello di congiunzione tra individuo e popolazione, potere disciplinare e biopotere –, fino a toccare la “svolta etica”, con cui non si allude tanto a un nuovo interesse di Foucault per i contenuti dell’etica antica, quanto alla rinnovata scoperta di una filosofia intesa come pratica d’esistenza, come ethos appunto, modo di vivere e comportarsi. «Restituire alla filosofia il suo ethos»[2], così si potrebbe sintetizzare il senso via via più chiaro dell’esplorazione foucaultiana del mondo antico. E d’altra parte questo motivo della filosofia come pratica di esistenza, così centrale nei lavori degli ultimi anni, è già in qualche modo presente ai tempi della risposta di Foucault alle critiche di Derrida sulla sua lettura di Cartesio e della storia della follia[3]. Foucault osservava allora (il testo compare nel 1972) come, per comprendere l’operazione di Cartesio, non si potesse prescindere dal fatto che l’esercizio della meditazione e del dubbio, nelle Meditazioni metafisiche, configurasse una pratica, un esercizio di simulazione, nell’ambito del quale però il soggetto era chiamato a rifiutare l’eventualità di immaginarsi folle. Negli anni ottanta Foucault torna sull’argomento, riconoscendo nel «momento cartesiano» un punto di non ritorno nella storia del pensiero, a partire dal quale la filosofia si sarebbe configurata sempre più nettamente come metodo del corretto discernimento del vero dal falso piuttosto che come stile di vita[4]. Negli ultimi anni, dunque, Foucault esplora un tema in passato solo sfiorato, alla ricerca stavolta di forme differenti di soggettivazione, nel tentativo di liberare la possibilità teorica di essere soggetti diversi, o di essere meno “soggetti” a fonti esterne di potere. Sotto il segno della “cura di sé”, l’Antichità greca e romana dà vita infatti, nella lettura foucaultiana, a un rapporto del soggetto con la verità esattamente opposto rispetto a quello implicato dalla confessione cristiana e dal panoptismo disciplinare. Il mondo antico sperimenta cioè una “pratica” della verità al cui centro si trovano i concetti di paraskeue e parrhesia. La prima indica l’atteggiamento del discepolo che si esercita a costruire se stesso secondo alcune verità generali di condotta che gli vengono dall’esterno, ovvero dal maestro, capovolgendo così la dinamica tipica della confessione cristiana, in cui la soggettività è posta come oggetto di conoscenza e del discorso. La parrhesia indica invece l’atteggiamento del maestro che, per converso, contribuisce alla formazione dell’allievo dicendo con franchezza e ad ogni costo tutta la verità che richiede di essere detta. Ne segue dunque, come sottolinea Ariano, che «il peso e il coraggio della verità non sono portati – come nell’istituzione panoptica e nella confessione cristiana – da coloro che vengono diretti, bensì da colui che dirige, dal filosofo» (p. 203). Così, la scoperta delle arti di vivere e tecnologie del sé antiche offre a Foucault uno spiraglio per pensare nuove forme di resistenza al potere, attraverso la messa in campo di pratiche di sé apertamente alternative a quelle delle istituzioni disciplinari. E qui presto il ragionamento torna a Kant. In Discorso e verità nella Grecia antica, Foucault distingue due filoni lungo i quali si sarebbe sviluppato il tema della verità nella cultura e nella filosofia occidentale: un’analitica della verità, tesa al corretto discernimento del vero dal falso, e una tradizione critica legata, al contrario, alla questione dell’importanza per l’individuo e la società del fatto di dire e conoscere la verità, ovvero al tema della parrhesia, centrale in una determinata fase del pensiero occidentale e presente, pur se meno valorizzata, in tutto il resto della sua storia[5]. In Illuminismo e critica[6] Foucault riscopre questa stessa dualità nell’opera kantiana. Proprio la critica, che sembrerebbe allacciare immediatamente Kant alla tradizione critica dell’Occidente, avrebbe nutrito in realtà un’ambiguità di fondo, una tensione che l’avrebbe in ultimo portata ad assumere due distinte fisionomie: per un verso, essa sarebbe apparsa come indagine trascendentale sui limiti della conoscenza, volta dunque a distinguere usi legittimi e illegittimi delle facoltà conoscitive; per altro verso, nel porre la questione dell’Illuminismo, Kant avrebbe formulato una critica d’altro genere, come opzione a favore di un ethos della libertà e del coraggio, segnatamente, del coraggio di conoscere. «Sapere aude!», questo è per Kant il motto dell’Illuminismo. Abbi il coraggio di servirti del tuo proprio intelletto, uscendo da quello stato di minorità di cui l’uomo stesso è responsabile, e che lo rende incapace di servirsi del proprio intelletto in assenza della guida di un’autorità esterna. Così l’Aufklärung assume i tratti vaghi di un atteggiamento, di uno stile di vita, più che di una dottrina determinata. Ma Foucault si spinge oltre, giungendo a ritenere che la stessa Critica kantiana vada in realtà letta come realizzazione precisamente di quell’Aufklärung, o ethos critico, invocato nel famoso scritto del 1784[7]. In questo si sarebbe però al tempo stesso compiuto un rovesciamento e un riassorbimento della tradizione critica a vantaggio dell’analitica della verità. Nel segno di questo capovolgimento si sarebbe svolto il seguito della cultura occidentale, in cui, non a caso, le questioni dell’Illuminismo, del dominio e del potere sarebbero state poi sempre poste in termini di conoscenza, come se non si fosse trattato d’altro che di usi distorti della ragione. Ariano raccoglie la sfida foucaultiana di ridare linfa a quell’ethos critico, comparso e poi subito sussunto nell’analitica kantiana della verità. E se, per Foucault, posta in gioco di quest’operazione è liberare l’indagine sul potere e sul sapere dalla questione della legittimità, ovvero da ogni apriori trascendentale, fino a descrivere un ethos dell’indocilità e della resistenza, Ariano dà voce a quello che potrebbe leggersi come una sorta di testamento spirituale di Foucault, che auspica un filosofare che sia pratica di libertà ed esercizio di resistenza.
[1] I corsi di antropologia di Kant si tennero dal 1772, ovvero prima della prima Critica (1781), al 1797, ovvero dopo la pubblicazione della Critica del Giudizio (1791), a testimonianza della simultaneità con cui il problema critico e quello antropologico furono elaborati e affrontati, e dunque dei plausibili legami tra l’uno e l’altro. L’anno successivo, nel 1798, sarebbe uscita l’Antropologia dal punto di vista pragmatico. [2] A. Tagliapietra, Restituire alla filosofia il suo ethos, in R. Ariano, Morte dell’uomo e fine del soggetto, Rubettino, Soveria Mannelli 2014. [3] M. Foucault, Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco, trad. it. di E. Renzi e V. Vezzoli, in Storia della follia nell’età classica, trad. it. di F. Ferrucci, BUR, Milano 2008. Il testo viene pubblicato come appendice alla seconda edizione della Storia della follia nel 1972, dunque molto tempo dopo l’intervento di Derrida cui risponde, Cogito e storia della follia, risalente al 1963 e poi raccolto in La scrittura e la differenza nel 1967. Cfr. J. Derrida, Cogito e storia della follia, in La scrittura e la differenza, trad. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1990. [4] Cfr. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, trad. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003. Si vedano in particolare le pp. 411-412. [5] Cfr. M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, a cura di A. Galeotti, Donzelli, Roma 2005, p. 112. [6] Cfr. M. Foucault, Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997. Il testo è la trascrizione della conferenza pronunciata nel 1978 alla Sorbona sul tema Qu’est-ce que la critique?; cfr. M. Foucault, Qu’est-ce que la critique? suivi de La culture de soi, a cura di H.-P. Fruchaud e D. Lorenzini, Vrin, Paris 2015. [7] Cfr. M. Foucault, Illuminismo e critica, cit., p. 42. |