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A questo punto, effettuata l’analisi dei centri di detenzione e delle zone di concentramento, sarà più semplice e quindi risulterà più chiaro capire in che senso si parla di “percorsi confinati” e di “campi di forza”. Le zone di concentramento e i centri di detenzione, in quanto dispositivi di direzionamento e condizionamento dell’azione, in particolare della mobilità, dei soggetti che li attraversano, producono effetti di controllo sulle persone e creano percorsi obbligati, percorsi confinati, condizionano il viaggio sia verso l’Europa che al suo interno, riproponendosi ovunque come eventualità e minaccia. I percorsi dei migranti risultano “percorsi confinati” e non percorsi interrotti o arrestati perché l’esistenza di tali percorsi, di fatto, è il prodotto non soltanto di una strategia di governo, che comunque già di per sé mira all’inclusione differenziale e funzionale sul territorio e non al blocco totale delle migrazioni[1], ma anche di una spinta soggettiva dei migranti, delle loro energie che li portano a elaborare strategie di resistenza e di esistenza sempre nuove e a creare percorsi inediti, mai interamente prevedibili, spesso anche sempre più pericolosi, alla ricerca di un luogo in cui vivere.

I “percorsi confinati” sono dunque quelli all’interno dei quali si muovono i corpi dei migranti e sono l’effetto dei “campi di forza” come nuova modalità di confinamento dei migranti che oggi attraversano le frontiere d’Europa. Tali campi sono invisibili – si materializzano solo nelle tappe di concentramento e di detenzione –, creati attorno al corpo stesso di ogni singolo migrante e spostabili con loro, «risultanti dal corto circuito tra le scelte, la volontà, e le energie di questi ultimi e i tentativi del sistema di condizionarle e metterle a valore attraverso strumenti giuridici, politici e sociali» (p. 239), senza che tale sistema sia mai del tutto in grado di dirigere un cammino fatto di decisioni sempre almeno in parte soggettive e libere.

Secondo una visione dei rapporti di potere che ha come fulcro la riflessione di Michel Foucault[2], Sciurba descrive la genesi di questi campi di forza proprio come la risultante di una lotta, di un duello gravido di condizionamenti che avviene fra i due poli che costantemente si fronteggiano. Da un lato, appunto, la soggettività dei migranti (al contempo assoggettata e soggettivante) che costringe i dispositivi di controllo della mobilità a modificare se stessi rinegoziando di volta in volta un nuovo tipo di confinamento; dall’altro le pratiche e le strategie sempre nuove di confinamento che modificano le scelte, i movimenti, le rotte dei migranti. Il campo di forza è proprio questo spazio di contesa fra i due poli che circonda il corpo di ogni singolo migrante. La lotta è continua e, all’interno di tale duello, i rapporti di potere sono mobili e passibili ad ogni round di cambiamento, di sbilanciamento, di ribaltamento, senza irrigidirsi mai totalmente. Ad ogni fuga in avanti dei soggetti rispetto al tentativo di controllo cui sono sottoposti, si produce una modifica anche nei sistemi di controllo della loro mobilità e nuove pratiche di confinamento capaci di reindirizzare le energie dei soggetti temporaneamente sfuggiti al controllo.

Se, da una parte, è vero che tali campi di forza e percorsi confinati riguardano le singole storie e i singoli corpi dei migranti, dall’altra, in questo continuo rapporto di sfida e negoziazione con le politiche europee, questi campi e questi percorsi contribuiscono a mettere in luce le contraddizioni del nostro tempo e le particolari caratteristiche del panorama geopolitico europeo, e ci obbligano a riflettere sui criteri dell’inclusione e dell’esclusione dagli spazi della cittadinanza, della partecipazione, dei diritti.

Il libro si chiude provando ad immaginare la possibilità che si riesca a creare, dalla parte dei migranti, uno squilibrio tale nel complesso gioco dei rapporti di potere nel quale sono inseriti e del quale sono co-protagonisti per cui, se il loro corpo si trova imbrigliato all’interno di un campo di forza risultante dalla lotta fra strategie di governo e strategie dei migranti, tale circolo si spezzi e con esso quel campo di forza che accerchia i migranti, costringendoli alla condizione di mobilità.

Quando il movimento diventa oggetto di controllo di colui che si muove, la soggettività e con essa la libertà del migrante consiste allora in una scelta tale da ripristinare la propria autonomia contro l’ordine preimposto al suo movimento. Tale libertà e tale scarto si manifestano nella rivendicazione e nell’esercizio del diritto di restare dove si è scelto.



[1] Infatti, tale modalità di gestione dell’immigrazione prevede una redistribuzione non tanto dell’accesso al territorio, quanto ai diritti che segnano l’appartenenza alla comunità politica.

[2] «Il potere non è mai ciò che qualcuno detiene o che da qualcuno promana. Il potere non appartiene né a qualcuno in particolare, né a un gruppo; il potere esiste solo perché esistono dispersione, correlazioni, scambi, reti, punti di appoggio reciproci, differenze di potenziali, scarti, e così via. È all’interno di questo sistema di differenze che il potere potrà mettersi a funzionare»; M. Foucault, Corso del 7 novembre 1973, in Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Feltrinelli, Milano 2006, p. 16.

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