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        mf : Foucault aveva già sostenuto, in Naissance de la biopolitique, che il neoliberalismo non governa attraverso la limitazione delle libertà degli individui, né attraverso una condotta diretta delle condotte, ma, al contrario, che esso agisce come produttore delle libertà, mettendo in opera una razionalità di auto-governo dei soggetti stessi. Ora, in questo contesto, il concetto di autonomia, sul quale erano fondate le analisi politiche classiche, ma anche le prospettive rivoluzionarie, è messo radicalmente in discussione, poiché la sua funzione cambia di segno: l’autonomia diviene precisamente il livello al quale il potere investe il soggetto. Questo obbliga quindi a ripensare la forma e gli obiettivi delle lotte stesse. Tuttavia, secondo lei, è possibile riprendere il concetto di autonomia e inserirlo in una logica che non siaquella tradizionale, fondata sull’opposizione tra potere governamentale e libertà individuale, quella che è attualmente all’opera nelle nostre società, dove l’autonomia dei soggetti si presenta come il principio di funzionamento del potere? In altri termini, è possibile tentare di codificare di nuovo l’idea di autonomia, in rapporto a ciò che voi chiamate « la produzione del (bene) comune »?

       C. Laval : Conosciamo tutti la magnifica osservazione di Rousseau, nell’Émile, che è al principio di certe “nuove” pedagogie: « Non c’è assoggettamento più perfetto di quello che conserva l’apparenza della libertà; così si seduce la volontà stessa ». Occorre evidentemente spingersi più lontano per comprendere le odierne arti di governare e dire, parafrasando Rousseau: « Non c’è assoggettamento più perfetto di quello che passa per la libertà del soggetto: così si seduce il suo desiderio ». Questo modo di riprendere la questione del potere (che dobbiamo a Foucault), mette evidentemente in questione la rivendicazione d’autonomia, d’identità, di spontaneità, d’autenticità, di originalità e anche quella di riconoscimento, che attraversa i movimenti di contestazione da quarant’anni a questa parte. È per questo che assistiamo oggi a un formidabile spostamento della problematica delle lotte attorno alla costruzione del “comune”. Piuttosto che continuare, come fanno alcuni, a far leva su un soggetto predefinito, al quale bisognerebbe riconoscere qualche proprietà o facoltà, cioè sempre un “proprio” che sarebbe stato rimosso, represso, occultato, alienato, un soggetto dunque al quale bisognerebbe riconoscere dei diritti originari, delle libertà essenziali, sarebbe meglio assumere, nella pratica stessa delle lotte e nelle loro forme d’organizzazione e di discorso, il carattere costruito, l’aspetto creativo e produttivo della soggettività, ciò che è reso dal concetto di “soggettivazione”. E se si vuole uscire dalla razionalità globale di “messa in concorrenza” generalizzata, noi (Pierre Dardot e io) pensiamo che occorra sviluppare collettivamente e in tutti i campi la “ragione del comune”, cioè una razionalità il cui principio generale sia la “messa in comune”. “L’autonomia”, in questo senso, è ridefinita e riaffermata come capacità comune di elaborare e di istituire i comuni. Così si può anche vedere che la lotta non è solo difensiva. Certo, è utile battersi per difendere i servizi pubblici contro il processo di distruzione e di privatizzazione in corso; ma bisogna, nello stesso tempo, trasformare il loro funzionamento e il rapporto che essi intrattengono con la società. La ricerca di una nuova “cittadinanza”, o di una nuova “etica cittadina” che è in effetti al centro dell’Appel des appels, non è dunque soltanto difensiva, almeno ai nostri occhi. Essa ricompone, a partire dalla tradizione repubblicana e umanista, un nuovo rapporto sociale. E qui parlo ancora una volta a titolo personale e non a nome dell’Appel des appels. Credo che occorra leggere nel suo slogan « rimettere dell’umano al cuore della società », un’esigenza che è quella di « rimettere del comune al cuore della società ».

       mf : Prof. Laval, nel ringraziarla della sua disponibilità, vorremmo domandarle per concludere se, a suo avviso, sarebbe possibile “estendere” la posta in gioco del vostro appello anche a una dimensione che abbatta le frontiere “nazionali” e che si presenti così dotata – per noi, oggi – di un significato “globale”.

       C. Laval : Non so, e credo nessuno sappia, ciò che ne sarà dell’Appel des appels. Fuoco di paglia, momento transitorio, istituzionalizzazione durevole? Tutto è possibile. Abbiamo a che fare con un’esperienza collettiva senza un modello concepito a priori – insomma, con un’invenzione continua. L’essenziale è qui il lavoro che si compie. “L’insurrezione delle coscienze”, della quale dà testimonianza questo movimento originale, è inseparabile da un deciframento dei nuovi modi di oppressione e da una messa in comune delle pratiche di resistenza. Ciò suppone la costruzione di piccoli e grandi dispositivi che permettano di mettere in opera un’intelligenza collettiva. È un processo che sembra in corso con e all’interno dei comitati locali. Rinnoverà le forme d’organizzazione, darà delle idee e dei modelli ai partiti, ai sindacati? Perché no? Dato il livello d’istruzione dei professionisti coinvolti, si può supporre che i modi di strutturazione e il tipo di rapporti tra le persone che fanno parte dei collettivi non possano più essere ricalcati sugli schemi militari e industriali che hanno caratterizzato le organizzazioni del movimento operaio. La grande questione, politica ed etica, delle forme di lotta, mi sembra essere quella del lavoro intellettuale in comune, della messa in comune del lavoro intellettuale.

Ma, per rispondere alla vostra domanda, alcuni coordinamenti europei e mondiali delle lotte contro le riforme neoliberali legate al “processo di Bologna” e alla strategia di Lisbona hanno già cominciato a essere creati, per esempio sul terreno universitario. Penso in particolare alle iniziative di questi ultimi mesi per creare una rete e delle azioni a livello europeo. È un processo che sostiene ovviamente l’ADA. Più in generale, questo movimento può e deve avere dei prolungamenti al di fuori della Francia. Sono già state strette alcune relazioni nello spazio francofono europeo, in Belgio e in Svizzera, grazie alle reti professionali tessute negli ambienti psy. Ci si può augurare l’estensione ad altri paesi e altri settori secondo un principio di coordinamento delle resistenze. Bisogna, in ogni caso, mettersi al lavoro. Il momento, forse, è propizio. Si percepisce un certo esaurimento delle forme d’organizzazione del movimento altromondista (no-global). Le grandi dichiarazioni di principio, i grandi fori mondiali, non sono sufficienti per creare delle forze collettive. Occorre ormai, piuttosto, articolare tra loro le mobilitazioni che mirano al “blocco globale”, le lotte a livello delle istanze di “governo” mondiale e le resistenze settoriali e locali. Bisogna contemporaneamente “discendere” da una prospettiva globale fino alle realtà professionali di base – è ciò che ha cominciato a fare, per esempio, ATTAC – e “risalire” fino alla logica generale della concorrenza, attraverso la messa in comune delle resistenze dei professionisti alle riforme – è ciò che tenta di fare l’ADA. Tuttavia, questa nuova articolazione implica, a mio avviso, una seria correzione dell’analisi che per molto tempo è stata fatta del neoliberalismo nell’ambito del movimento altromondista e del movimento sociale. Si tratta ora di comprendere meglio come e perché i mestieri legati ai servizi pubblici e allo Stato siano trasformati dalla logica neoliberale ben al di là del solo processo di “mercificazione” e di “privatizzazione”. Qui risiede tutto il senso delle analisi della “nuova ragione del mondo”. Insomma, dobbiamo lavorare, utilizzando gli strumenti che troviamo in parte in Foucault, a una trasformazione del movimento altromondista e del movimento sociale attraverso un rinnovamento delle considerazioni concernenti le forme di potere che sono proprie al capitalismo neoliberale.

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