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Sandro Chignola Risposte al forum "Giornalismo filosofico" Per Foucault, che considerava il proprio lavoro più affine a quello del giornalista che a quello del filosofo, giornalismo e filosofia sembrano intrecciarsi e modellarsi a vicenda, prendendo forma, in ultima analisi, attorno alla problematica dell’oggi e del rapporto tra evento e attualità: a partire dalla fine del XVIII secolo, scrive Foucault, « non vi sono molte filosofie che non ruotino attorno alla domanda: Chi siamo noi al momento attuale? (...) Ma penso che tale domanda sia anche a fondamento del mestiere di giornalista ». Che definizione darebbe lei e, soprattutto, che significato acquista per noi oggi, il “giornalismo filosofico”? La scelta di coinvolgere sia filosofi che giornalisti in questo forum deriva dall’idea che si possa parlare di “giornalismo filosofico” da entrambe le prospettive; l’obiettivo è proprio quello di capire in cosa consista la differente angolatura tra le due e dove risieda la loro specificità. In altri termini: cosa significa praticare giornalismo filosofico dal punto di vista di un giornalista e da quello di un filosofo? S. Chignola: È noto che la nozione di “giornalismo filosofico” ha in Foucault una funzione teorica precisa. Da un lato, essa si lega al lavoro del genealogista. Alla problematizzazione di ciò che, essendo attuale, determina una selezione tra i possibili, pone in essere un rapporto determinato tra verità e potere, propone il presente, dal quale il filosofo che pensa e che agisce non può chiamarsi fuori, come un terreno di battaglia. Dall’altro, essa richiama quella che Foucault chiama l’attitudine moderna, l’ethos del pensiero: la filosofia come apertura di un’interrogazione radicale sulla storia e sulla verità nella loro implicazione reciproca. La parabola che unisce nel gesto di un Illuminismo radicale Kant a Nietzsche. Ora, se lei mi chiede cosa questo abbia in comune col giornalismo, con i meccanismi di circolazione e di riproduzione dell’opinione, con gli assetti di potere che li attraversano, in prima battuta mi verrebbe da dire poco o nulla. E tuttavia, se ricordiamo i grandi reportage che Foucault stesso realizzò, ad esempio per il “Corriere della Sera”, sull’Iran o, per ricordare Gilles Deleuze, la quantità di interviste e di conferenze stampa che Foucault rilasciò nel corso degli anni e che costituiscono “parte integrante” della sua opera, allora il rapporto tra questi due campi del lavoro intellettuale dovrebbe essere assunto in termini meno secchi o meno lineari. Forse potremmo dire che condividere con Foucault un’etica del lavoro filosofico – la responsabilità del pensiero – significa assumere la forma dell’inchiesta o del reportage come un modo di una problematizzazione di ciò che abbiamo di fronte in grado di scuotere dal torpore anche il più pigro, o il più accademico, e spesso le due cose coincidono, degli intellettuali. Realizzare interferenze, mettere in movimento ciò che sembra auto evidente o fermo, produrre effetti distorsivi nel ritmo impercettibile della quotidianità: questo forse il punto nel quale le due forme di “giornalismo” possono curvare l’una nell’altra. Ma a patto che chi le interpreta, sia in grado di interpretarle sul serio. > Leggi la risposta di Wu Ming Quale ruolo gioca la pratica del dire la verità all’interno del giornalismo filosofico e di che tipo di verità eventualmente si tratta? S. Chignola: Questa è un’altra questione complessa. In Foucault il tema conosce varie declinazioni. Potremmo forse dire: la verità è la posta in gioco di un’inversione del rapporto di potere. Trovo interessante che Foucault riprenda le tematiche kantiane – la riflessione sull’Illuminismo e sull’attualità – negli ultimi corsi che tiene al Collège de France quando sta lavorando sul tema della soggettivazione e della parrhesia, del parlare franco. Del “coraggio della verità”, appunto. Responsabilità dell’intellettuale è spogliarsi dei panni del chierico, innanzitutto. Lavorare la filosofia in cantieri che propriamente non le appartengono. Renderla “integralmente storica e integralmente politica”, come Foucault diceva. Calarla nel fango della realtà e nel sangue delle battaglie che vi si combattono. E, in seconda battuta, assumere nella filosofia la responsabilità di una presa di parola che affronta il demonico dell’azione – così lo chiamerebbe Max Weber, un autore che reputo molto presente nell’ultima riflessione foucaultiana – caricandosi del coraggio, semplice e terribile, di dire le cose come stanno, invertendo il rapporto tra verità e potere e lacerando la trama narrativa in cui quest’ultimo avvolge la realtà. > Leggi la risposta di Wu Ming Il giornalismo filosofico consiste in una sorta di “battaglia a colpi di verità” contro il potere o produce piuttosto uno slittamento della posizione, della funzione e anche del significato di “verità” (spostando il problema sul piano della visibilità, ovvero, in termini foucaultiani, rendendo visibile ciò che non lo è)? S. Chignola: Credo che si tratti appunto di una mutazione del significato di verità. La critica filosofica è un reagente chimico, per Foucault. Essa deve rendere visibile il potere, là dove esso funziona, circola, si rende invisibile in quanto tramatura ordinante del quotidiano. Nulla è “vero” di per sé. E dunque, per Foucault, se una funzione della critica c’è, questa non può essere quella di smascherare il potere o l’ideologia opponendo ad essi la “verità”. A mio modo di vedere per Foucault la verità è la prospettiva, il taglio di luce, che istruisce il rapporto antagonista con il potere, la presa di parola, parziale e dal basso, che muove dal coté silenzioso e silenziato della storia, dall’anonimato forzato delle moltitudini. Lungi dall’essere la voce del neutro o dell’universale, la verità è di parte, per Foucault, per usare un’espressione che in seguito ricorre in Jacques Ranciére, Slavoj Zizek o in Étienne Balibar. > Leggi la risposta di Wu Ming Quanto è rilevante, al fine di produrre un certo effetto politico, il fatto in sé di dire la verità? S. Chignola: È estremamente rilevante, nella misura in cui “dire la verità” non significa pretendere di predicare l’universale, ma sottrarre la verità, il codice che separa vero e falso, al potere e ai suoi dispositivi. Come ho già detto, nessuno “smascheramemto” del potere o “critica dell’ideologia”, in Foucault. Coerente rivendicazione di una presa di parola parziale sulla realtà, piuttosto. “Vera”, proprio perché capace di sostenere – e di rivendicare – la propria parzialità. |