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Paolo B. Vernaglione Il giornalismo filosofico come genere della critica Delimitare un’ontologia del presente, ricominciare dalla critica come strumento “povero” per dirla con Benjamin, fare della critica il fuoco delle preoccupazioni e degli addensamenti di pensiero come delle dispersioni e delle traiettorie di esodo dalla infelice esistenza nel capitalismo, sembra essere il contenuto più adeguato del giornalismo filosofico. Se ne volessimo dare una prima definizione diremmo che esso, come effetto ibrido di cronaca e pensiero, prevede una grammatica dei concetti, l’esibizione di un ambito in cui una logica delle connessioni ha modo di dichiararsi. Indaga inoltre un’analitica dei rapporti tra poteri, saperi e soggetti in orbite del pensiero intorno a un nucleo stabile di informazione. Fare giornalismo filosofico significa, alla luce del compito che il presente affida a una generazione, e in cui, ancora con Benjamin, si scopre il senso di eventi fino ad oggi incomprensibili, correre una via che si fa largo nella riflessione filosofica senza esserne condizionata, nel tentativo di produrre informazione su ciò che è ritenuto credibile, a dispetto dell’evidenza, dei modi di informare, della volontà di comunicare o di essere connessi. Giornalismo filosofico non è dunque filosofia nelle pagine “cultura” dei grandi quotidiani, né invera una forma di comunicazione che abbia alle spalle una teoria dei media o un’istituzione professionale; d’altra parte, pur comprendendola, non è riducibile a una divulgazione alternativa, poiché dovrebbe consistere in primo luogo nella critica alla formazione della “pubblica opinione”, operando una rigorosa e sistematica privazione di sapere, realizzando un difetto di informazione, registrando il rifiuto alla comunicazione, per mostrare l’archivio degli eventi di detenzione, delle prassi di contenzione, dei modi di disciplinamento del pensiero; di quella storia dei modi di estorsione del consenso sottratta al dibattito pubblico. In un eventuale progetto o esperimento il giornalismo filosofico come strumento della critica dovrebbe attraversare i campi rispettivi della riflessione, della cronaca, della formazione, in cui istanze enciclopediche di pubblicità, volontà di sapere ed effetti di verità delle conoscenze disponibili sono congiunti nella promozione di eventi editoriali, nella puntualizzazione di un’argomentazione, nella polemica contro le idee dominanti – laddove hanno possibilità di confliggere con un senso comune, un principio di saggezza, un principio assoluto di responsabilità. Lastricare una via difficile da manipolare per i centri di orientamento simbolico collettivo, dislocati nelle redazioni dei grandi network, tradizionali e digitali. Asfaltare una strada che si snoda tra i confini sinuosi del sapere filosofico, come modalità di contrasto alla rinuncia a pensare nel regime dell’informazione; come erosione del capitale simbolico di un’agenda imperativa. Mettersi per questa via avrebbe il senso di un investimento nella vita quotidiana, non nel capitale umano rappresentato da sé e dai propri figli, o nella risorsa monetaria congruente con una carriera, una posizione lavorativa, un ruolo sociale; o infine con un altrove pensabile, credibile, rappresentabile. Se ci chiediamo ove può condurre questa strada irregolare, che rasenta l’astrazione senza dirigersi nell’alto dei cieli, che sottrae comunicazione all’evento (che sia la recensione di un libro, una mostra, uno spettacolo o un commento politico), senza privarsi dell’indicazione di una direzione possibile; che non si rivolge a un grande pubblico di consumatori con il fine di ampliare la platea di lettori, ma sprigiona un’intensità di attenzione in, ancora con Benjamin, una sintetica struttura enunciativa. Se la domanda che la teoria critica dovrebbe farsi nell’orizzonte del giornalismo filosofico verte sul valore di verità di un pensiero, di un’analisi sistematica del presente, di una riflessione idiosincratica sulla storia politica di un paese, una città, un quartiere, quella via stretta e questa domanda sono rispettivamente una strada a senso unico e un segnale di attenzione. La strada a senso unico è quella dell’esercizio della critica nella dialettica del ricordo e dell’interpretazione. Il segnale di attenzione può essere quello che Wittgenstein ha esemplificato nella differenza tra immagine ed espressione linguistica, tra immagine e immaginazione. La via del giornalismo filosofico conduce a una dislocazione di saperi in cui giochi linguistici e forme di vita risultano profilati, prima ancora che intrecciati; individuati e adoperati in una costellazione teorica: la strada con le sue indicazioni, la percezione, nel movimento del condurvisi, l’insieme indistinguibile di tracce di espressione e spazi di esistenza. Dunque il giornalismo filosofico risulta essere il luogo eminente delle differenze di almeno due insiemi discorsivi, due regimi di enunciazione, in un’unica strategia dell’attenzione – poiché si tratta di una sperimentazione il cui tracciato, come per tutti gli enti naturali, si dipana nello scarto con la mappa che li indica. Ma allora esso è anche luogo di tensione di prassi e filosofia nella forma della loro indistinzione, forma in cui una produzione teorica decide per la contingenza, e un comportamento, una strategia di conflitto assumono una postura sintetica, circoscrivendo un concetto, articolando un contenuto, delimitando un contesto, producendo un’estetica. L’ambito del giornalismo filosofico si specifica allora come un’ontologia in cui l’individuo è interpretato come altro da se stesso, in cui si rende ragione di come un’identità sia soggetta al divenire; esso traccia una superficie piana nell’analogia della strada con una linea che si inabissa e risale a tratti, ritagliata nel luogo in cui la modernità decide ogni giorno uno sviluppo folle, e dunque il proprio tramonto – e in cui al fondo constatiamo la corruzione dei rapporti tra saperi, poteri e soggetti. In questo spazio si decide delle sintesi critiche del presente, nei modi della sua indagine, così come si manifestano nelle relazioni tra campi del sapere e governo delle vite; e si appronta un’analisi dei rapporti tra forme di governo e “governo di sé e degli altri”. In tal caso, questa forma si assume come compito un’autocritica degli effetti di sapere sulla soggettività. Ecco allora che un compito storico per generazioni diverse diviene pensabile, apre un campo di positività, oggi sempre più ripiegato su pratiche di controllo e valutazione, nelle scuole e nei luoghi di formazione. Sempre più amplificato dall’informazione in questa chiusura; quasi mai criticato come algoritmo di soggettività governate, quanto più libere. Una tale fenomenologia dei saperi e il loro capitalistico valore come merce formazione, utile capitale informativo, necessaria norma ordinativa di soggettivazione, rimanda a una pratica archeologica in cui enunciati e reperti di costume, linguaggi codificati e tecniche di coercizione, modelli filosofici e finalità terapeutiche sono assunti in una sintesi, invece che nella loro evidenza individuale, nell’eterogeneità con cui si offrono allo sguardo, nella caotica seduzione di un gioco, in un’affettività da investire, una singolarità da apprezzare. Ma insieme, in questo ipotetico genere “minore” della produzione di pensiero, la cronaca dell’intelletto, dei suoi movimenti usuali, come degli atti di autoriflessione, dispone un’analitica delle relazioni tra poteri e soggetti: rappresentazione sulla soggettività, degli effetti di verità di quegli enti sparsi che sono le “cose” della modernità, gadget e dispositivi di identificazione, superfici lisce di pubbliche relazioni, territori striati di comunità dimenticate. In quali forme potrebbe esprimersi il giornalismo filosofico? Il laboratorio seminariale, il portale dedicato, un insieme di facoltà in un’università della creazione che si accampa tra le rovine dell’università-istituzione e produce modalità di radicamento della formazione; e poi il magazine filosofico di una casa editrice, di un consorzio; archivi on-line per la condivisione di testi, risorse di studio, bollettini aperti. Con quali oggetti? Un’analitica del presente consegna allo sguardo della critica la scena della cattura della “natura umana”, nelle forme multiple del governo della vita, degli istituti dislocati di autoassoggettamento e nella realizzazione di dispositivi di veridizione che contrassegnano niente di meno che il rapporto degli esseri umani con la facoltà di linguaggio, i caratteri propri della specie, i tratti naturali delle istituzioni sociali: modelli di valutazione (del merito, dell’efficienza, dell’operatività); forme di adesione a una logica imprenditoriale (il bene comune, la difesa di un investimento, la sicurezza familiare); modi di comportamento (ripristino di una morale pubblica dettata dall’austerità, di una sobrietà che urla verso i precedenti fasti post-moderni). Ma ci consegna anche la criminalizzazione del godimento, la dismissione del piacere sessuale nell’esibizione di una potenza drogata; l’identificazione moralistica di soggetto e desiderio da opporre al godimento di merci in nome del ripristino dell’equilibrio tra legge e pulsioni, nome del padre e padre reale (laddove la madre rimane in un’esteriorità indiscussa rispetto alla crisi dell’orizzonte simbolico maschile, invece di inverare la disfatta complessiva del nucleo padre-madre-figlio/a). Tutta una serie di regole da autoapplicare come antidolorifici e balsamici occultano una corporeità dismessa in cui il soggetto cerca di registrare se stesso, di rimuovere strati bucati e piani mancanti di un’identità autistica, nel narcisismo e nella svalutazione di sé. Per contro, una terapeutica della psiche esibisce programmi e fornisce consulenze per una salute ordinata, in cui si leggono tuttavia a chiare lettere gli indici di un’esistenza cui pervenire invece che di una mancanza da ripristinare, un deficit da colmare, un’identificazione paterna, materna, familiare da raggiungere e cui attribuire senso nella biografia personale. Per riportare alle condizioni della critica questo panorama è necessaria un’operatività che consta di una doppia dinamica: di distacco e di esibizione. Se infatti la modernità si è distinta per la mobilitazione delle masse e, al tramonto, per la connettività degli individui, essere inattuali e disconnessi dalla contingenza costituisce la privilegiata condizione di possibilità dell’evento critico e, probabilmente, una prassi di soggettivazione. Staccare gli eventi dalla trama in cui sono intessuti, dalle apologie che li celebrano, e osservarne la costellazione per scoprirvi le intensità luminose, i cristalli di singolarità che vi brillano. Sfilarli dal passato per mostrarne l’essere storico; separarli dal mondo per percepirne la mondanità; registrarli nell’archivio della contemporaneità per scoprirne l’unicità. Queste operazioni di ritaglio fanno delle essenze luoghi di conoscenza al fine di indagarne le forze di composizione e i rapporti di solidarietà, così come le polarità volontarie e i regimi discorsivi di cui desideri e disfatte affettive sono costituiti. Un gesto archeologico consente dunque di cogliere il punto di insorgenza dei fenomeni storici e biografici, la produzione di senso che il passato genera laddove di esso si registra, insieme alla storicità, la faglia ultrastorica, come ha scritto Agamben commentando Dumézil. Si tratta di iniziare da eventi che, in quanto storici, sono singolarità, non riproduzioni di una generalità che si estende su una serie continua o in uno sviluppo lineare, o secondo una teleologia. Da qui, considerare il presente “per sé”, come effetto di un accumulo del quale non si cercherà l’origine bensì l’archè, nella stratificazione temporale in cui è divenuto. Poiché questa origine non originaria è inseparabile dalla fatticità di ciò che accade, è solo in essa che un inizio è reperibile. Ma lo è solo laddove coglie nella storia la soglia del non accaduto in cui consiste l’apprezzamento delle fonti. Tale facoltà, rara perché prevede una fuoriuscita dal campo d’indagine dello storico come del critico e del filosofo, provoca la dissolvenza del velo della tradizione ermeneutica, velo che occulta il punto di insorgenza dell’evento e lo cristallizza in una continuità artefatta, in una razionalizzazione inscalfibile, in un ordine temporale inevitabile. Accedere a tale facoltà vale più di ogni tentativo di narrare se stessi ad esclusione della storia del mondo e di quello contrario, in cui si è distesa la modernità, del lottare contro i padroni della miseria subordinando la soggettività alla storia. In tal modo prende corpo la possibilità che una biografia singolare, come effetto di un’esteriorità in cui si condensa, non rimanga la storia di un eroe, la misera moltiplicazione retorica in cui l’io trova una gloriosa gratificazione, ma scopra il luogo di contatto tra una soggettività e un evento impersonale. |