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Negli ultimi anni della sua ricerca, Foucault si sofferma a lungo sulle pratiche della cura di sé, che egli legge, in un certo senso, come possibili forme di resistenza ad un potere che trova il suo principale campo di esercizio nella formazione della soggettività individuale. Per questo, tali forme di resistenza possono facilmente essere lette come pratiche individuali. A suo avviso, in che modo esse possono essere ricollegate a quelle forme di resistenza più collettive individuate da Foucault negli anni Settanta, come ad esempio quelle legate all’esperienza del G.I.P., cui Foucault stesso ha partecipato? E, più in generale, come può essere concepita, secondo lei, la relazione tra resistenze individuali e collettive? J. Revel: Credo di avere una certa difficoltà con la formulazione della vostra domanda. Non penso che in Foucault la cura di sé sia leggibile come pratica individuale. Né tanto meno che sia una risposta individuale ad un potere che tende precisamente di costruire e di plasmare secondo le sue necessità (essenzialmente economico-politiche) la figura dell’individuo. Il pericolo è di confondere i piani storici, vale a dire e gli orizzonti di riferimento concettuali ed epistemologici nei quali ci si situa. Quando Foucault si occupa di cura di sé, lo fa a partire da pratiche ed esperienze (riferite al pensiero antico) per le quali il nostro concetto moderno d’individuo non ha nessun significato. Per dirlo in modo brutale e schematico, il sé greco non è l’Io cartesiano, e, a fortiori, non è l’individuo costruito dal liberalismo economico e politico di cui Foucault descrive la nascita nel corso al Collège de France del ’78. È per questa ragione che alcuni preferiscono usare, sulle orme di Deleuze, la parola “singolarità”; ma la sottigliezza lessicale non ci deve comunque far dimenticare che non possiamo in nessun modo proiettare retroattivamente il nostro orizzonte categoriale su ciò che lo precede o ne differisce: non solo perché sarebbe epistemologicamente errato, ma perché è proprio il gioco di quella differenza che tanto appassionava Foucault, e che dà senso alla sua ricerca. La stessa cosa si potrebbe dire anche della coppia individuale/collettivo. Io non so se chiamare l’esperienza del GIP “collettiva”: è stata sicuramente un’esperienza di lotta (e dunque di soggettivazione) che coinvolgeva allo stesso tempo ognuno dei partecipanti alla lotta e l’insieme del loro “gruppo”. Ma il “gruppo” (poiché tal è la parola scelta da loro: Groupe d’Information sur les Prisons, non collettivo d’informazione…) contava detenuti, membri delle loro famiglie, alcune figure dei servizi sociali, intellettuali di grido, militanti della Gauche Prolétarienne, attori famosissimi, anonimi … Quale “collettivo” in quel caso? Mi sembra che la classica definizione del “collettivo” implichi ad ogni modo una riduzione all’unità, un’omogeneità che nel GIP non c’è; meglio: è proprio perché la soggettivazione del gruppo si fa attraverso la lotta che non c’è bisogno di un “più piccolo comune denominatore” posto a priori per fungere da fondamento alla sua dinamica “collettiva”. Ed è questo che si tratta di analizzare: come fanno delle differenze singolari ad articolarsi e ad inventare insieme qualcosa che, lungi dal rimettere in causa la loro singolarità, la rinforza - ma che allo stesso tempo permette la produzione di qualcosa di comune? Mi sembra che la riflessione di Foucault, alla fine degli anni Settanta, sui movimenti gay, vada esattamente nella stessa direzione: una confluenza di singolarità nella lotta concreta esiste senz’altro, ed è necessaria; ma nessuna identità collettiva ne può rendere conto, perché la disomogeneità – sociale, culturale, di età, di classe, poco importa … - non può e non deve essere appiattita sotto il sogno fittizio dell’ideal-tipo che attraversa sempre la forma del collettivo. Eppure, produrre la critica politica del concetto moderno di collettivo non significa essere ributtati in dietro tra le braccia dell’individuale, anche perché, ancora una volta, lo stesso concetto di “individuo” possiede un preciso contesto di emergenza. Diciamo solo che c’è un modo di tessere comune (attraverso la produzione di soggettività, attraverso la lotta, attraverso la resistenza) che fa del comune stesso un risultato (e non un fondamento) delle pratiche che si mettono in gioco, e che la sostanza etica e politica e i modi di organizzazione di quel comune differiscono e mutano in permanenza in funzione delle coordinate storiche, geografiche e politiche all’interno delle quali ci si trova, che sono a loro volta cangianti. > Leggi la risposta di Miguel de Beistegui |