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Sandro Mezzadra

Risposte al forum "Michel Foucault e le resistenze"

Propos recueilli par Daniele Lorenzini


       Il concetto di resistenza svolge un ruolo centrale nell’analitica del potere sviluppata da Michel Foucault negli anni Settanta. Come è noto, ne La volontà di sapere Foucault sottolineava la correlazione inevitabile tra forme di esercizio del potere e resistenze:

Là dove c’è potere c’è resistenza e […] tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere. Bisogna dire che si è necessariamente “dentro” il potere, che non gli si “sfugge”, che non c’è, rispetto ad esso, un’esteriorità assoluta, perché si sarebbe immancabilmente soggetti alla legge? O che, se la storia è l’astuzia della ragione, il potere sarebbe a sua volta l’astuzia della storia - ciò che vince sempre? Vorrebbe dire misconoscere il carattere strettamente relazionale dei rapporti di potere. Essi non possono esistere che in funzione di una molteplicità di punti di resistenza, i quali svolgono, nelle relazioni di potere, il ruolo di avversario, di bersaglio, di appoggio, di sporgenza per una presa. Questi punti di resistenza sono presenti dappertutto nella trama di potere. (La volontà di sapere, pp. 84-85)

Questa concezione del rapporto tra potere e resistenza possedeva senza dubbio una fortissima originalità e costituiva un ulteriore elemento di rottura del pensiero foucaultiano rispetto alle precedenti concezioni del potere.

       Potrebbe indicare quelli che, secondo lei, rimangono i caratteri più innovativi di questa idea di resistenza e spiegare se (ed eventualmente come) essa può rivestire ancora oggi un particolare interesse?

S. Mezzadra: Il problema della resistenza, in Foucault, è uno degli aspetti più rilevanti per chi voglia ragionare, oggi, sull’attualità della sua riflessione, ma al tempo stesso è un concetto estremamente problematico. Infatti, mettendo un attimo da parte la lettura di Gilles Deleuze (che è alla base di molte attualizzazioni), il concetto foucaultiano di resistenza è un concetto per così dire elementare, un concetto fisico che si colloca all’interno di una “fisica del potere”: il potere si applica a dei corpi, nel senso più lato del termine, e questi corpi “resistono”, analogamente a come “resiste” un tavolo quando si applica un potere su di esso, per esempio schiacciando il pollice. Questo concetto mi sembra, si badi bene, molto affascinante ed estremamente produttivo dal punto di vista di un’analitica del potere; però, chiaramente, l’“azione” viene dal potere e la resistenza, dunque, non viene prima, ma dopo. Logicamente, in simile scenario, l’affermazione di Deleuze secondo cui la resistenza viene prima è, per dirla in modo un po’ tranchant, priva di senso (il che corrisponde in qualche modo a una strategia di Deleuze). Perciò mi pare che, in fondo, le critiche mosse a Foucault a partire dalla metà degli anni settanta, sul tema del rapporto potere-resistenza, colgano effettivamente un problema, un punto cieco nel suo discorso – e non è un caso che egli, dopo La volonté de savoir, abbia cominciato ad occuparsi d’altro. Credo che l’itinerario di Foucault, dopo il 1976, vada letto in questa luce, ovvero come una serie di tentativi fatti per esplorare un campo oltre i “vicoli ciechi” nei quali la sua ricerca, pur straordinariamente produttiva, lo aveva condotto. Alcuni di questi tentativi, naturalmente, si esauriscono quasi subito. Ma, a partire dal corso Sécurité, territoire, population, mi sembra che Foucault cominci a focalizzare il tentativo cui vuole dedicarsi – e non è un caso che, subito dopo, ci sia un passaggio attraverso il tema del neoliberalismo.

La “governamentalità”, infatti, si presenta prima di tutto come una categoria per leggere il potere, ma al tempo stesso può essere anche una categoria (e per Foucault chiaramente lo diventa) attraverso cui rielaborare l’insieme delle questioni poste dalla resistenza, dalle lotte. E, da questo punto di vista, l’analisi del neoliberalismo riveste un ruolo fondamentale. Non dimentichiamo, infatti, il contesto storico del corso di Foucault del 1978-79: in quel periodo, di neoliberalismo si parlava ancora poco (dobbiamo quindi rendere omaggio alla preveggenza di Foucault, che capisce invece che il problema dei decenni successivi sarebbe stato il neoliberalismo), mentre si discuteva molto dello Stato. In particolare, con riferimento alla Germania, si parlava di una “fascistizzazione” dello Stato, attraverso la fascistizzazione della social-democrazia[1]. Foucault, nel 1979, fa piazza pulita di questi discorsi: nel corso sul neoliberalismo c’è infatti una critica esplicita e molto efficace del discorso sulla fascistizzazione dello Stato, sullo Stato che prende su di sé il controllo della società (l’étatisation della società)[2]: Foucault sostiene ci sia un diverso passaggio da prendere in considerazione, sintomo di un atteggiamento di lungo periodo che aveva cominciato ad analizzare l’anno precedente, ovvero di una tendenza verso la governamentalizzazione dello Stato – un processo che, tendenzialmente, mette in discussione la stessa forma dello Stato così come la modernità lo ha conosciuto. E non è indifferente ricordare come Foucault, nei suoi interventi, insista spesso sul fatto che la sinistra non abbia una teoria del (e una razionalità di) governo: questo ci fa capire come sia possibile leggere la riflessione di Foucault sul governo non solo dal punto di vista del potere, ma anche dal punto di vista della resistenza. Si tratta di un problema che è ancora un nostro problema: come elaborare, attraverso e oltre Foucault, una teoria “positiva” del governo, inteso come “governo del comune” se si vuole.

Ad essere sincero, poi, ho sempre fatto molta fatica a comprendere il significato dell’itinerario di Foucault dopo questo corso del 1978-79 sul neoliberalismo, il significato del suo “ritorno ai Greci”. È solo da qualche mese che mi appare più chiara, e interessante, la portata di questa scelta. Credo infatti che soprattutto l’ultimo corso di Foucault, Le courage de la vérité, apra effettivamente in direzione di una riqualificazione dell’etica sul terreno della soggettivazione politica, che può essere pensato come terreno autonomo, come terreno su cui, cioè, la soggettivazione politica si determina oltre i limiti, i vicoli ciechi di una concezione meramente fisica della resistenza. Su questo, potrei rimandare a un mio saggio recente, scritto per la rivista statunitense South Atlantic Quarterly[3], nel quale rifletto un po’ sulla distinzione che Foucault traccia tra “politica” (la politique) e “politico” (le politique), nel corso al Collège de France del 1982-83, Le gouvernement de soi et des autres[4]. Come noto, il tema del politico era un tema “caldo” nei primi anni ottanta in Francia, e Foucault aveva sicuramente in mente, come obiettivo polemico, i lavori di Claude Lefort. In qualche modo, credo allora che Foucault colga nella centralità del politico – diversamente declinata con riferimento a Carl Schmitt e ad Hannah Arendt da Mario Tronti, da Claude Lefort, ecc. – il tentativo di neutralizzare la portata dirompente dei movimenti degli anni intorno al ’68. E dunque penso anche che la sua riflessione sulla politica dei primi anni ottanta, riflessione che passa attraverso i Greci, sia motivata, sia pure con molte mediazioni (con molti passaggi intermedi), dall’esigenza di mantenere una fedeltà di fondo al maggio del ’68. E, per ritornare al punto da cui siamo partiti, mi pare che in questa luce acquisti un significato nuovo ed estremamente interessante proprio la riqualificazione etica della soggettivazione politica: ovvero, come dicevo, l’indicazione della possibilità di svolgere la questione della soggettivazione politica al di fuori del campo del potere e del suo rapporto biunivoco con la resistenza.

> Leggi la risposta di Miguel de Beistegui

> Leggi la risposta di Judith Revel



[1] Si veda ad esempio, per quel che riguarda il dibattito italiano, Il gulag socialdemocratico. Note sulla repressione in Germania, a cura di A. Assante e P. Pozzi, Mozzi, Milano 1977 (che ricostruisce comunque il quadro di feroce repressione in Germania federale alla metà degli anni settanta). Ovviamente, non tutta la discussione sul tema dello Stato era orientata in tal senso: le riflessioni di Toni Negri sulla crisi dello “Stato-piano”, sullo “Stato-crisi”, per esempio, andavano in una direzione molto diversa; cfr. A. Negri, Crisi dello Stato-piano: comunismo e organizzazione rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano 1974 e soprattutto i saggi raccolti in Id., La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della costituzione, Feltrinelli, Milano 1977.

[2] Cfr. M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France. 1978-1979, Seuil/Gallimard, Paris 2004, pp. 78-80.

[3] Cfr. S. Mezzadra, Beyond the State, Beyond the Desert, in corso di pubblicazione in «South Atlantic Quarterly», 2011.

[4] Cfr. M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983, Seuil/Gallimard, Paris 2008, pp. 146-147.

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