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Intervista a Sandra Laugier e Albert Ogien su Pourquoi désobéir en démocratie?

© materiali foucaultiani

Tradotto dal francese da Daniele Lorenzini


Al fine di proseguire e arricchire le riflessioni inaugurate con Christian Laval nel maggio scorso a proposito de l’Appel des appels, abbiamo chiesto a Sandra Laugier, professore di filosofia all’Université Paris-I Panthéon-Sorbonne, e ad Albert Ogien, sociologo al CNRS e all’EHESS, di parlare del loro libro Pourquoi désobéir en démocratie ?, recentemente pubblicato per La Découverte.


        mf : Professoressa Laugier, Professor Ogien, abbiamo deciso di domandarvi questa intervista a proposito del vostro libro Pourquoi désobéir en démocratie ? (Éditions La Découverte, Paris 2010) perché il vostro sforzo di prendere sul serio l’attuale proliferazione di appelli alla disobbedienza civile, e di legarla saldamente a un nuovo modo di governare i cittadini delle democrazie avanzate – che voi chiamate « governare al risultato », o ancora « logica della performance » – ci sembra meritevole di grande attenzione, anche da un punto di vista foucaultiano. Per cominciare, allora, potreste spiegare cosa intendete con l’espressione « governare al risultato »? E potreste mettere in luce il legame che rintracciate tra questa inedita pratica governamentale e ciò che voi chiamate « esperienza della depossessione » – in particolare nei campi del mestiere, della lingua e della voce?

        S. Laugier, A. Ogien : “Governare al risultato” designa la nuova maniera di condurre gli affari pubblici che si è imposta, da quasi quarant’anni a questa parte, nelle democrazie di dirtto sociale. Sin dai tempi di Max Weber, sappiamo che l’esercizio del potere politico è sempre accompagnato da un discorso di legittimazione. Questo discorso viene forumlato utilizzando registri differenti a seconda dei periodi: si può governare sulla base della tradizione, dell’uguaglianza, della giustizia, della grandezza, della sovranità, della segregazione, della religione, della guerra, della nazione, della crescita economica, ecc. Oggi, si governa sulla base del risultato: i dirigenti moderni vogliono cioè assoggettare la decisione politica ai dati di quantificazione, e inquadrare l’azione pubblica in una serie di procedure di valutazione della performance di ciasuna politica intrapresa con l’aiuto di indicatori che misurano il grado di realizzazione degli obiettivi cifrati che i responsabili di tali politiche devono raggiungere – grado di realizzazione sulla base del quale sono essi stessi giudicati e retribuiti. Governare al risultato è, in un certo senso, la realizzazione di un antico sogno: far uscire la politica dal dominio della passione, del clientelismo, dell’arbitrario e dell’irrazionalità, e sottometterla a quello della ragione, fondata sull’oggettività aritmetica.

Incidentalmente, questa trasformazione delle tecniche di governo mira a infondere un po’ di spirito d’impresa, di redditività e di competizione in questi universi assopiti dalla routine e dalla sicurezza dell’impiego che sarebbero le amministrazioni statali, allineando le regole di lavoro che vi prevalgono a quelle in vigore nel settore economico. La messa in pratica di simile progetto, controllata dalle istituzioni internazionali (OCDE, FMI e Banca Mondiale), si traduce, nei paesi sviluppati, in un movimento continuo di “riforme” il cui scopo è ridurre la presa che lo Stato ha acquisito sull’organizzazione della società nel secondo dopoguerra. È questo movimento che Ezra Suleiman ha descritto come un processo di smantellamento dello Stato democratico. Tra parentesi, conviene segnalare che il desiderio di razionalizzare l’attività di governo non è nuovo; ciò che è cambiato è che lo sviluppo dell’informatica, e la potenza degli strumenti di gestione che essa permette di mobilitare per organizzare le attività umane a partire dalla loro descrizione statistica, facilita e accelera l’operazionalizzazione di questo progetto.

Ecco spiegato il vento di riforma che soffia attualmente sulle democrazie di diritto sociale, la cui ambizione si lascia riassumere in una massima: lo Stato deve passare « da una logica dei mezzi a una logica del risultato ». E, nel presente contesto, questa massima si traduce in un’analogia: lo Stato deve essere gestito come si gestisce un’impresa. Simile analogia non è puramente ideologica – nel senso che rifletterebbe la “nuova ragione del mondo” descritta da Dardot e Laval. Al contrario, essa informa in modo estremamente concreto il quotidiano dell’attività amministrativa: accrescimento quantitativo dei compiti mascherato dalla semplificazione e “smaterializzazione” delle procedure; moltiplicazione degli obblighi di aggiornare le banche dati; concentrazione dei poteri nelle mani di manager la cui autorità risulta rinforzata; riduzione dei margini di manovra del personale esecutivo; limitazione della sovranità dei professionisti (giustizia, sanità, insegnamento, ricerca, polizia) attraverso la standardizzazione delle loro pratiche. Tali cambiamenti (che si giustificano, oggi, grazie all’imperativo categorico della riduzione del debito pubblico) si intersecano, in modo piuttosto fortuito, con l’emergenza di un’ideologia che incita alla riduzione drastica delle prerogative dello Stato e alla privatizzazione dei servizi pubblici.

La concomitanza di questi due movimenti suscita una certa confusione, e spinge alcuni a legare la riconfigurazione del modello di esercizio del potere (e il fenomeno che la rende possibile, ovvero la digitalizzazione del politico) alla vittoria del neo-liberalismo e ai suoi corollari: la de-regolamentazione al servizio delle forze del capitale finanziario, la concorrenza come modello per i rapporti sociali, la mercificazione dei servizi assicurati dallo Stato. O a legarla a ciò che, per gli eredi di Foucault, attesta l’avvento della “governamentalità neo-liberale”. Le nostre analisi non si iscrivono in questa prospettiva, dal momento che interessarsi alla disobbedienza civile ci obbliga ad accordare un’autonomia relativa al politico rispetto all’ideologico, all’economico e al finanziario. È questa scelta di metodo che ci ha permesso di studiare, a partire da alcune manifestazioni del rifiuto di applicare certe istruzioni, gli effetti dell’imposizione della logica del risultato e della performance all’azione pubblica – così come essi si osservano nell’emergenza di un esercizio autoritario della democrazia.

Il fatto è che gli atti di disobbedienza civile che descriviamo esprimono le reazioni epidermiche di agenti e professionisti del servizio pubblico di fronte all’arroganza e al disprezzo dei “manager” che, a partire dalle valutazioni che commissionano e analizzano, impongono loro dei modi di agire presumibilmente più “performanti”, mentre ne contestano loro stessi la fondatezza, ricordando le condizioni normalmente richieste al fine di esercitare la loro funzione o il loro mestiere in modo corretto. Parimenti, è lo scarto tra le istruzioni che bisogna seguire e il giudizio sulla loro validità e pertinenza che conduce questi agenti e professionisti a rifiutare di seguire delle prescrizioni che ritengono implicare conseguenze devastanti per la vocazione del servizio pubblico dello Stato e per la natura dei servizi che esso deve assicurare ai cittadini.

L’imposizione della logica del risultato e della performance all’azione pubblica conduce chi la subisce a provare la medesima esperienza, quella della depossessione. Tale esperienza è sperimentata in tre ambiti della vita ordinaria: l’ambito del mestiere (le procedure di valutazione producono una descrizione dell’attività professionale che non corrisponde ai modi di fare stabiliti o alle regole dell’arte riconosciute); l’ambito della lingua (gli individui non sanno più esattamente di cosa parlino quando usano termini ordinari – come efficacia, equità, responsabilità, libertà, autonomia, qualità, risultato, trasparenza, ecc. – che, per i dirigenti, indicano delle tecniche di governo che si traducono in una serie di direttive la cui applicazione produce effetti apparentemente contrari a quelli che il loro nome lascerebbe supporre); l’ambito della voce (la constatazione che le critiche o le lamentele che gli agenti esprimono riguardo la maniera in cui gli affari pubblici dovrebbero essere condotti contino sempre meno agli occhi dei governanti).

Opponendo resistenza a questa depossessione, coloro che si mettono in stato di disobbedienza attirano l’attenzione su un fenomeno: la digitalizzazione del politico, nella quale l’atto di governo si riduce a un adattamento dei mezzi per realizzare un fine. All’interno di un simile modello, il governante (o colui che esegue il programma) non pensa più ai fini della propria azione (che sono definiti dalle cifre), e tutti i mezzi sono buoni per arrivare a realizzare l’obiettivo fissato (giusto per natura, poiché è fondato sull’oggettività della cifra), che si misura con l’aiuto di qualche indicatore. Questo processo trasforma totalmente la natura dell’atto politico; e ciò che l’inchiesta mostra, è che la generalizzazione dei dispositivi di digitalizzazione che si mettono oggi in pratica per condurre l’azione pubblica permette ai governanti di prendere un numero sempre maggiore di decisioni, evitando ogni deliberazione e dispensandosi dal raccogliere le opinioni di coloro che sono toccati o danneggiati da tali decisioni. Si constata ugualmente che la digitalizzazione è lo strumento di tutte le riorganizzazioni e ristrutturazioni realizzate senza tenere conto né dei bisogni dei cittadini, né delle esigenze proprie all’esercizio dei mestieri di cui i manager della funzione pubblica ridefiniscono i contorni e gli obblighi. Ciò che gli atti di disobbedienza civile commessi contro l’avanzata della digitalizzazione mettono in evidenza è una nuova congiuntura: la costruzione dei sistemi d’informazione e l’organizzazione della loro “interoperabilità” (ovvero il fatto di produrre descrizioni statistiche dell’azione pubblica, dei suoi costi dettagliati e delle “risorse umane” che mobilita, i cui parametri ed algoritmi siano compatibili, in modo che le informazioni prodotte possano essere incrociate a piacere) sono divenuti luoghi fondamentali del politico. Ma la debole eco che tali atti suscitano nello spazio pubblico ci ricorda la difficoltà di far ammettere alle organizzazioni politiche tradizionali questo nuovo stato di fatto.

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