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       mf : Ci sembra inoltre che negli atti contemporanei di disobbedienza civile si ponga il complesso e delicato problema del rapporto tra resistenza “individuale” e impegno “collettivo”. A vostro avviso, quando e attraverso quali vie la resistenza individuale (di un insegnante, di un medico, di un funzionario) al regime governamentale della performance diviene una pratica collettiva? In altri termini, ciò che vi chiediamo – una domanda che abbiamo posto anche a Christian Laval – è se il “io rifiuto di obbedire”, ovvero la pratica della disobbedienza in quanto tale, che dice “no” al potere governamentale della performance, costituisca già una critica politicamente efficace per far fronte a tale potere. Oppure, in caso contrario, come sia allora possibile passare dalla negatività di un rifiuto individuale alla positività di una lotta collettiva…

       S. Laugier, A. Ogien : La disobbedienza obbliga in ogni caso a rivendicare una forma di individualismo – poiché non bisogna lasciare il monopolio dell’individuo, se possiamo dirlo, al neo-liberalismo e a certe forme distruttive di individualismo. A sinistra si è avuta una tendenza troppo marcata ad abbandonare questo tema dell’individualismo, talvolta per buone ragioni: contraddizione tra cura dell’individuo e legame sociale, avanzata dell’individualismo consumista e dell’“arricchitevi” cinico, e anche per delle ragioni teoriche – in particolare, in funzione delle critiche dell’individualismo metodologico e dell’ideologia neo-liberale, che farebbero di individui autonomi e fittizi il punto di ancoraggio di ogni riflessione sull’azione sociale, indipendentemente dai legami sociali e dal bene pubblico. È diventato frequente, del resto, deplorare il processo di individualizzazione che, secondo molti analisti (sociologi, storici), caratterizza la modernità e che conduce a un ripiegamento di ciascuno sulla propria vita privata, sul proprio territorio soggettivo e sui propri interessi particolari. Se ne ricava un’immagine poco lusinghiera dell’individualismo, opposta alle concezioni (tradizionalmente ancorate al pensiero di sinistra) dell’interesse collettivo, della cura del collettivo.

Immagine negativa che è rinforzata, in modo più attuale e aneddotico, dall’apparizione nella vita pubblica e politica di figure narcisistiche che caricaturizzano un individualismo che potremmo chiamare, in mancanza di meglio, “volgare”: la ricerca del profitto per sé, e non solo la cultura sfrenata di un ideale individualista versione mediatica e “popolare”, ma anche l’esibizione dei segni della ricchezza o del successo individuale. Ciò che noi possiamo fare, coniugando ancora Wittgenstein e Foucault, è ridare all’individualismo il suo senso, e dunque distinguere tra gli individualismi, evitando di lasciare il monopolio dell’individualismo a questo individualismo di destra, che è non solo egoista, ma anche sprovvisto di senso e di ideali, senza individualità reale. Sembra che una forma di individualismo, che resta da definire, sia essenziale alla democrazia stessa.

Il pensiero di Cavell, quello della tradizione intellettuale americana del XIX secolo, Emerson e Thoreau, teorici della disobbedienza civile e della fiducia in se stessi, riabilitano una forma radicale e critica di individualismo. Essi mostrano, come Wittgenstein e la filosofia del linguaggio ordinario, che la riflessione sull’individuo passa da una ridefinizione di cosa sia un’espressione giusta, una voce coerente; non basta esprimersi per avere una voce, come mostrano anche le analisi di Foucault sull’espressione individuale e pubblica. La voce è indissolubilmente personale e collettiva, e più essa esprime il singolare, più essa è adatta alla rappresentazione del collettivo. Una voce deve allora essere rivendicatrice, ed esprimere le altre: non solo parlare in nome di quelli che non possono parlare – un’idea spesso sostenuta in campagna elettorale, ma condiscendente e senza avvenire. Non si parla al posto di qualcuno, già occorre essere capaci di parlare per sé, di assumere la responsabilità di una presa di parola.

Alla base della questione della voce, ve n’è un’altra: cos’è che permette di dire noi? Io (solo) posso dire quello che noi diciamo. L’uso comune del linguaggio pone direttamente una questione politica, che è quella della necessità della voce individuale e del dissenso. È l’idea che bisogna trovare la propria voce in politica: questa tematizzazione della voce si trova in Emerson e nell’idea di fiducia in se stessi (Self-Reliance). Il testo di Emerson intitolato precisamente « Fiducia in se stessi » afferma che l’espressione individuale autentica è legittimata ad essere pubblica quando essa è autentica.

« Credere nel vostro pensiero, credere che ciò che è vero per voi nell’intimità del vostro cuore sia vero per tutti gli uomini – in ciò consiste il genio. Esprimete la vostra convinzione latente, ed essa sarà il sentimento universale; poiché ciò che è più intimo finisce sempre per divenire ciò che è più pubblico. »[1]

Questo conduce Emerson ad una critica del conformismo e del moralismo, concepiti come incapacità di prendere la parola, di voler dire in prima persona ciò che si dice, di essere i veri soggetti della propria parola. La fiducia [in se stessi] non è fondata su un’individualità esistente, ma la costituisce: tale costituzione dell’individuo si realizza attraverso la ricerca di ciascuno della propria voce, del giusto tono, dell’espressione adeguata. Si tratta allo stesso tempo di costituzione individuale (« seguire la propria costituzione », dice Emerson) e comune: trovare una costituzione politica che permetta a ciascuno di esprimersi – di essere espresso dal comune e di accettare di esprimerlo.

Avremo allora una formula dell’individualismo: nell’idea di fiducia in se stessi, e nella dialettica del consenso e della disobbedienza, che definisce la democrazia. L’individualismo diviene così principio democratico, quello della competenza politica ed espressiva di ciascuno. Si tratta di sapere per ciascuno ciò che gli si addice, e ogni volta in modo singolare. È per questo che l’individualismo consumista non è un vero individualismo, poiché esso rinvia piuttosto a un individuo generalizzato e astratto, ai bisogni stereotipati (la grana, i vestiti Prada, il Rolex): un individualismo senza individualità.

Il vero individualismo non è egoismo, ma attenzione all’altro in quanto singolare, e all’espressione specifica di ciascuno; è osservazione delle situazioni ordinarie in cui sono inseriti gli altri. Per questo una posta in gioco dell’individualismo è anche l’attenzione ai vulnerabili. Il vero individualismo diviene attenzione concreta a ciascuno: l’etica del care (della preoccupazione per gli altri) mira a valorizzare la cura degli altri, non contro la cura di sé, ma come base di una reale cura di sé – contro gli approcci paternalistici, e spesso ipocriti, alla categoria dei “vulnerabili”. Prendere coscienza dell’importanza del care e della cura dell’individuo presuppone di riconoscere che la vulnerabilità è condivisa. In controtendenza rispetto all’ideale dell’autonomia, che non è sufficiente, questo ci ricorda che noi stessi abbiamo bisogno di altri per soddisfare i nostri bisogni, e che ciascuno ha bisogno di un’attenzione particolare. Al giorno d’oggi, è lo smantellamento dello Stato (educazione, università, ospedale e servizi pubblici in generale) a rappresentare la fonte principale di vulnerabilità degli individui: la perdita della protezione della comunità, solo quadro possibile per lo sviluppo della maggioranza. È per queste ragioni che non possiamo più opporre individualismo e solidarietà, e che è possibile proteggere l’individuo solo insistendo sulla necessità di una società solidale e attenta a ciascuno nella sua vulnerabilità e nella sua espressione specifica. Il vero individualismo è anche l’attenzione agli altri individui.


[1] « To believe your own thought, to believe that what is true for you in your private heart is true for all men, – that is genius. Speak your latent conviction, and it shall be the universal sense; for the inmost in due time becomes the outmost »; R.W. Emerson, Self-Reliance [1841], in The Portable Emerson, ed. by C. Bode and M. Cowley, Penguin Books, New York 1977, p. 138.

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