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       Nei testi che Foucault dedica alla pittura, uno dei temi ricorrenti è senz’altro quello del rapporto tra due dimensioni, quella del ‘visibile’ e dell’ ‘enunciabile’, che pur essendo irriducibili, sono al tempo stesso complementari. In modo peculiare, tale rapporto viene indagato nell’ambito delle argomentazioni sull’arte pittorica attraverso un’analisi della nozione di sguardo e, quindi, delle diverse modalità in cui il soggetto, con il modificarsi delle condizioni del cosiddetto regime scopico, si costituisce di volta in volta in quanto ‘spettatore’.

        Il rapporto tra visione e linguaggio, nonché le problematiche legate all’esercizio dello sguardo, non sono però tematiche che Foucault utilizza esclusivamente per la pittura. Infatti, tali temi, essendo legati alla formazione del sapere, alla nozione di verità e all’esercizio del potere, riemergono in altri contesti. Secondo lei, in che modo e con quali caratteristiche i rapporti tra visibile ed enunciabile e la nozione di sguardo, vengono utilizzati negli anni Settanta nell’ambito dell’analitica del potere?

B. Moroncini: Si può leggere il rapporto elaborato da Foucault fra il piano dell’enunciabile (le parole) e quello del visibile (le cose) come una complicazione dell’originario rapporto a due pensato dalla linguistica moderna e dalla semiologia su di essa fondata fra i significanti e i significati. Si potrebbe applicare a Foucault la griglia predisposta da Hjelmslev che accanto alla forma e alla sostanza contempla anche quella fra contenuto e espressione: l’enunciabile quindi non è soltanto forma ma ha anche un contenuto e il visibile non si riduce alla sostanza ma ha la sua specifica espressione. C’è una relativa autonomia dei due registri fra i quali di conseguenza non si dà rispecchiamento semplice, anche se restano in corrispondenza. Ciò spiega perché pur essendo diversi, se non opposti, l’enunciabile e il visibile continuino a essere in rapporto, a funzionare come un’opposizione pertinente. Se il sistema carcerario (il visibile) smentisce da ogni lato il discorso penale (l’enunciabile), ciò non toglie che essi insieme costituiscano un sistema unitario e perfettamente funzionante.

Se ho fatto riferimento a Sorvegliare e punire è perché qui il regime scopico che la domanda evoca è lampante e più ancora che il regime la vera e propria pulsione scopica, la questione del carattere desiderante dello sguardo. Quest’ultimo è un tema chiave del primo Foucault che si estende dallo sguardo sovrano della rappresentazione, esemplificato dall’analisi del quadro di Velázquez Las Meninas, alle trasformazioni dello sguardo clinico ricostruite nella Nascita della clinica. Ma è certamente in Sorvegliare e punire che si trova la tematizzazione più esauriente della pulsione scopica e delle forme di godimento ad essa legate. Restiamo sul piano del visibile: la punizione sovrana non esiste al di là della pubblica esposizione del supplizio sul patibolo fino all’esecuzione della pena capitale; la pena moderna viene erogata nel chiuso di un carcere in cui il detenuto è sottoposto ad uno sguardo anonimo e impersonale. Nel supplizio il condannato è offerto allo sguardo del popolo ed entrambi godono: il condannato perché può esibire fino all’ultimo il suo disprezzo per il potere sovrano e manifestare la sua natura eversiva e il popolo perché soddisfa le sue pulsioni sadiche per interposta persona, siano esse indirizzate al condannato punito per la eccessiva tracotanza o al sovrano contro il cui potere ci si vorrebbe ribellare. Lo sguardo anonimo della sorveglianza muta la direzione dello sguardo del detenuto che non si indirizza più al sovrano e/o al popolo ma si volge verso se stesso e diventa uno sguardo interiore che tende a scrutare le più sottili inclinazioni della volontà, le più lievi variazioni del carattere per accertarsi che in esse non alberghino all’insaputa stessa del soggetto tendenze alla deviazione dalla norma, spinte occulte alla trasgressione. È lo sguardo dell’autodisciplina, dell’interiorizzazione del comando ‘superegoico’ e allo stesso tempo di un godimento perverso della legge che, non più incarnata nel sovrano, si distende negli interstizi della psiche dei soggetti.

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        Un’altra nozione che caratterizza la critica letteraria di Foucault negli anni Sessanta e che ricompare negli anni Ottanta nell’ambito delle riflessioni sull’estetica dell’esistenza è quella di scrittura. Una nozione che, inizialmente collegata all’esperienza letteraria e quindi valutata come ‘esperienza-limite’, viene poi utilizzata come una delle tecniche di elaborazione e costituzione del sé. Come interpreta questo cambio di prospettiva e, più in generale, il fatto che alcuni temi siano costantemente presenti nella riflessione filosofica foucaultiana?

B. Moroncini: A questa domanda mi sembra di avere in parte già risposto. Quello che posso aggiungere è che la polemica di Foucault è sempre rivolta, quali che siano le fasi del suo pensiero, le scelte metodologiche e i campi d’esperienza investigati, contro il primato del cogito, cioè della declinazione del soggetto consona alla partizione decisiva fra la ragione e la follia e quindi al regime di verità, al tipo di volontà di verità, che ci determina tuttora (un tuttora riferito sia agli ultimi anni di vita di Foucault che al nostro presente). La scrittura, la scrittura di Mallarmé, di Bataille, di Blanchot, di Roussel, ma anche di Sade e di Artaud, è la pratica attraverso la quale si destituisce il potere del cogito cartesiano di cui partecipa in realtà anche il soggetto delle scienze umane. Se l’effetto indiretto di queste ultime e soprattutto dei loro figli illegittimi quali l’antropologia strutturale di Levi-Strauss e la psicoanalisi lacaniana, è costituito dalla finitudine, vale a dire dalla follia, almeno se ci si pone dal punto di vista delle Parole e le cose, allora la scrittura è sia la pratica che ci permette l’accesso a quest’ultima sia lo spazio che la costituisce. Anzi più che una pratica – a meno che tutte le pratiche lo siano – la scrittura è un territorio in cui si entra ma da cui non si esce, qualcosa di simile alla ‘landa dall’inconfondibile traccia’ di cui parlava Celan in Engführung.

Se di scrittura in senso ‘letterario’ sembra che non vi sia più traccia nel Foucault successivo, tuttavia il tema della scrittura, come ho già detto, non scompare. Come scrittura di sé, come scrittura del sé, essa continua a porre la questione di come si costruisce un soggetto non assoggettato, un soggetto più capace di dire la verità che di esserne il prodotto passivo.

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