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       Negli ultimi anni della sua ricerca, Foucault si sofferma a lungo sulle pratiche della cura di sé, che egli legge, in un certo senso, come possibili forme di resistenza ad un potere che trova il suo principale campo di esercizio nella formazione della soggettività individuale. Per questo, tali forme di resistenza possono facilmente essere lette come pratiche individuali.

       A suo avviso, in che modo esse possono essere ricollegate a quelle forme di resistenza più collettive individuate da Foucault negli anni Settanta, come ad esempio quelle legate all’esperienza del G.I.P., cui Foucault stesso ha partecipato? E, più in generale, come può essere concepita, secondo lei, la relazione tra resistenze individuali e collettive?

S. Mezzadra: Sinceramente, questa domanda mi mette un po’ in difficoltà: si tratta di una questione assai complessa, dal momento che, per essere franco, nell’ultimo Foucault non riesco a vedere quest’articolazione tra la dimensione individuale e la dimensione collettiva della contro-condotta. Certo, mi convincono quelle interpretazioni, in particolare dell’ultimo corso, che vanno nel senso di una teoria della militanza. Una teoria della militanza che però, sempre ammesso che si accetti tale tesi interpretativa, viene presentata da Foucault soltanto per accenni e in modo molto frammentario. Il passaggio ulteriore sarebbe dovuto essere, precisamente, la riflessione sul modo in cui la militanza si articola con una dimensione collettiva perché, per dirla in modo un po’ provocatorio, la teoria della militanza, così come la si può leggere in filigrana in alcune pagine de Le courage de la vérité, è una teoria leninista, una teoria dell’avanguardia, una teoria del Partito dei Quadri… O, se si preferisce, una teoria degli ordini monastici. Foucault, naturalmente, non avrebbe mai accettato questo modo di leggere la sua teoria e tuttavia, mancando l’altro “pezzo”, mi pare difficile negare la legittimità di una lettura in questo senso. Credo dunque che, in assenza di uno sviluppo successivo della riflessione di Foucault, se si vuole interrogare questa articolazione tra dimensione individuale e collettiva, singolare e comune, si tratti, da una parte, di lavorare sul concetto di contro-condotta, e dall’altra di tornare ad esplorare alcuni dei “sentieri interrotti” che la riflessione di Foucault ha percorso tra il 1975 e il 1977. Insomma, si può certo partire dalla riflessione foucaultiana degli anni ottanta, ma poi bisogna tornare indietro.

In primo luogo, mi pare ci sia moltissimo lavoro da fare sul concetto di contro-condotta, e a tal proposito quello che manca, nella letteratura su Foucault, è una vera ricerca sul suo rapporto con Max Weber, proprio nella seconda metà degli anni settanta (e dunque al di là del tema della disciplina, su cui le “assonanze” sono state spesso richiamate). Perché Weber, in Foucault, c’è molto di più di quanto si pensi, e anche di quanto appaia dalle esplicite citazioni testuali. C’è, in particolare, per la questione della condotta e della contro-condotta: “condotta di vita” (Lebensführung) è infatti la categoria fondamentale della “sociologia comprendente” weberiana, e se si legge il corso del 1978-79 risulta chiaro che Foucault aveva ripreso a studiare Weber – anche solo, banalmente, laddove propone di rileggere la storia tedesco-federale del secondo dopoguerra, con una certa precisione, all’insegna di uno scontro tra una sinistra e una destra weberiana[1]. Ma, naturalmente, in Weber non compare il concetto di contro-condotta. A mio avviso, allora, è lavorando sull’intersezione Weber-Foucault che è possibile fare qualche passo avanti rispetto all’articolazione tra la dimensione individuale e la dimensione collettiva, e soprattutto rispetto al “governo” di questa articolazione. Poiché la “condotta di vita”, in Weber, è una condotta di vita individuale, ma si determina pur sempre in riferimento a quelli che chiama gli ordinamenti oggettivi della vita sociale; e la contro-condotta, come “risposta” di Foucault a Weber, credo sia proprio un tentativo (consapevole o meno) di affrontare questa problematica.

D’altra parte, un secondo rapporto che sarebbe importante tornare a studiare è quello tra Foucault e Karl Marx: un rapporto che credo sia interessante interrogare anche dal punto di vista della categoria di “biopolitica”. In effetti, mi ha colpito molto rileggere, di recente, la conferenza di Bahia su Les mailles du pouvoir, nella quale Foucault fa riferimento al primo (e non al secondo, come dice!) libro del Capitale[2]: al processo di disciplinamento del lavoro all’interno della cooperazione di fabbrica, dove agisce un potere, anzi una serie di poteri, che sono chiaramente diversi dal potere politico, e che Marx definisce attraverso una categoria piuttosto rilevante, quella di “Kommando” (un termine inusuale, di applicazione esclusivamente militare). Mi pare valga la pena lavorare su questa categoria di Kommando, in Marx, che sarei portato a leggere proprio dal punto di vista (indicato da Foucault) dell’eterogeneità dei dispositivi e dei modi di potere come elemento costitutivo della storia moderna del potere – una storia che non è descrivibile come una transizione lineare dalla sovranità alla disciplina, e poi dalla disciplina al controllo, ma che (come ci mostrano molti degli studiosi che hanno provato ad applicare le categorie foucaultiane ad ambiti coloniali[3]) è invece caratterizzata dalla sovrapposizione e dall’articolazione tra diversi regimi, modalità, dispositivi, tecnologie di potere. E il riferimento di Foucault a Marx, in quella conferenza, è così rilevante perché è anche una delle prime circostanze in cui Foucault usa il termine “biopolitica”: a mio avviso, allora, sarebbe interessante interrogare, attraverso e oltre Foucault, il rapporto tra quello che il filosofo francese chiama “disciplina” (e Marx “Kommando”: credo infatti che le due categorie vadano contaminate, perché l’una ci mostra i limiti dell’altra) e la biopolitica. Perché, in quel testo, Foucault definisce la biopolitica come una politica che si applica, innanzitutto, al di fuori del luogo eminente di applicazione della disciplina (la fabbrica), e inoltre su una dimensione non individuale (la popolazione). Quello su cui sto un po’ ragionando è la possibilità di leggere questo rapporto dal punto di vista dell’analisi marxiana della forza lavoro, che ci consegna precisamente il problema del rapporto tra dimensione individuale e dimensione collettiva, dimensione singolare e dimensione comune: come si governa la dimensione collettiva, la dimensione comune della forza lavoro, soprattutto quando il lavoro esce dalle mura della fabbrica? La biopolitica, a un certo punto, deve essere sembrata a Foucault un concetto che consentiva di affrontare (anche) questo problema.

> Leggi la risposta di Miguel de Beistegui

> Leggi la risposta di Judith Revel



[1] Cfr. M. Foucault, Naissance de la biopolitique, cit., pp. 109-110.

[2] Cfr. M. Foucault, Les mailles du pouvoir, in Dits et écrits II, 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, pp. 1001-1020. L’“equivoco” su cui si basa il riferimento al secondo libro del Capitale nel testo della conferenza è ben chiarito da R.M. Leonelli, L’arma del sapere. Storia e potere tra Foucault e Marx, in Id. (a cura di), Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, Bulzoni, Roma 2010, pp. 113-142 (in specie pp. 124-127).

[3] Cfr. ad esempio A.L. Stoler, Race and the Education of Desire: Foucault’s History of Sexuality and the Colonial Order of Things, Duke University Press, Durham–London 1995.

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