| Stampa |

Alain Brossat

Ritratto del filosofo come animale di compagnia

Tradotto dal francese da Orazio Irrera


Questo testo è stato originariamente composto sulla base di una serie di riflessioni suscitate dalla lettura del secondo capitolo del saggio di Géraldine Muhlmann, Du journalisme en démocratie (Payot, Paris 2004)


       Sono un lettore abbastanza assiduo di Foucault per sapere che nulla è più vano delle formule «fissiste» applicate al pensiero di questo autore, come ad esempio: «Foucault pensa che» o, peggio ancora, «Foucault ha sempre pensato che…». Ciò che è più peculiare nel lavoro di Foucault è l’inclusione, all’interno delle sue procedure analitiche, della mobilità, dello scarto, del ridispiegamento dell’apparato concettuale, del cambiamento frequente dell’angolo di attacco dei problemi: questi tentativi destinati a far valere quel che Foucault avrebbe veramente detto o avrebbe sempre detto, in contrapposizione ad altre letture, sono espressamente anti-foucaultiani. Ma questo non significa che si possa far dire a questo autore, più che ad altri, tutto quel che si vuole. Non potendo pretendere di imporre una lettura canonizzata di ciò che egli avrebbe veramente detto e pensato, tuttavia possiamo benissimo pronunciarci su quello che non ha mai detto e, a maggior ragione, su quel che è radicalmente estraneo ai suoi modi di problematizzazione e di formulazione. Ora, si dà il caso che oggi ci si trovi però dinnanzi ad un abuso: il tentativo di irreggimentare Foucault, del tutto contrariamente al lavoro di quest’ultimo, in una piatta impresa tanto di riabilitazione del potere giornalistico quanto di apologia della democrazia liberale o, per dirla come Badiou, capital-parlamentare.

       Soffermiamoci su questo tentativo. L’argomentazione propostaci è abbastanza semplice. Inversamente alle critiche al giornalismo in voga negli ambienti intellettuali, Foucault si schiererebbe di fatto a favore della proliferazione dei media, diffidando di quegli attacchi che in fondo prenderebbero di mira il «principio di pubblicità» (secondo il vocabolario di Habermas); auspicandosi di avere sempre «più giornali» anziché rifiutare la stampa già esistente, Foucault invocherebbe questa immensa curiosità del pubblico che alimenta l’apparizione dei nuovi titoli. D’altra parte, avanzando il tema dell’«ontologia dell’attualità», aspirando al ruolo di colui che «diagnostica l’attualità», riattivando attorno a questi motivi un’ispirazione kantiana ravvisabile nel testo Risposta alla questione “Che cos’è l’Illuminismo?”, Foucault getterebbe un ponte tra il filosofo e il giornalista. D’altronde, quest’ultimo non è, per definizione, colui che si occupa dell’attualità come mestiere? E Foucault, dal canto suo, non ha detto di aver sempre tenuto a cuore il fatto di intrattenere le migliori relazioni con i giornalisti? Per convincersene non basta del resto contare, tra i Dits et écrits, il gran numero di interviste accordate ai giornalisti da parte dell’autore de La volontà di sapere, o anche gli articoli, i dibattiti, le dichiarazioni e persino i reportages (sulla rivoluzione iraniana) da lui stilati e pubblicati in tutti i tipi di giornali…?

       E, ben inteso, non si manca nemmeno di evocare un discorso, tutto sommato abbastanza vago, pronunciato dallo stesso Foucault: «Quando un giornalista viene a chiedermi delle informazioni sul mio lavoro, io cerco di dargliele nella maniera più chiara possibile». E non si ha alcuno scrupolo a trascrivere questo discorso nei termini di una pretesa «sottomissione» dello studioso al giornalista – lo studioso sarebbe quindi al servizio del giornalista, non il contrario! Del resto, non si manca nemmeno di sottolineare quelle piccole provocazioni di cui Foucault coltivava l’arte con un certo diletto secondo cui egli si definiva in tutti i modi tranne che come filosofo – uno storico, un giornalista, un reporter, come colui che fa diagnosi del presente, a seconda del giorno, dell’ispirazione, dell’interlocutore… Una procedura, questa, volta a distaccare il suo lavoro dall’istituzione filosofica e che esprime in effetti tutta la Stimmung gioiosa e ironica del pensiero foucaultiano, di cui però non ne registra che la lettera, con una pesantezza di spirito che disarma e disturba.

       Ma soprattutto si tratta in fin dei conti di costruire il seguente sillogismo: Foucault si definì dalla parte del giornalismo e dei giornalisti; il giornalismo, nella nostra società, è la democrazia, ne costituisce il suo cuore pulsante; pertanto Foucault è un fervente partigiano del-la democrazia, è un democratico, pertanto ancora, egli è nemico tutta quell’antidemocrazia perversa e demoniaca che prospera tutt’intorno a noi, ecc. – Potrebbe esserci qualcosa di più semplicistico, o meglio ancora dovrei dire, grossolano, di questo sillogismo? E se io ponessi questa domanda: ma quest’apologia dell’idolo Democrazia dove la si ritrova in Foucault? In qual libro, in quale articolo? Mi si accuserà di spaccare il capello in quattro e di non essere sensibile a questa disposizione nascosta che farebbe di Foucault un democratico liberale di cui non si avrebbe consapevolezza, un discepolo di Tocqueville e un alter ego di Claude Lefort, nella stessa maniera per cui, secondo alcuni, il Sade delle 120 giornate mostrerebbe un fervente cristiano di cui non si avrebbe consapevolezza… Ci si chiederà allora dove l’Habermas che tuona contro il nichilismo e il nietzschianesimo irresponsabile di Foucault sarebbe andato a trovare tutto ciò…

continua...

1   2   3

 
Copyright © 2010 Materiali Foucaultiani
All Rights Reserved

Site Design & Implementation by Pixed SNC - Logo by Cartabianca di Bruno Frati

Questo sito utilizza cookies tecnici per questioni di funzionamento basilare (gestione multilingua, analytics). Nessun dato personale è raccolto e utilizzato per fini commerciali. Per avere maggiori informazioni, leggi la nostra Informativa Privacy & Cookies.

Accetto i Cookies da questo sito.