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Quel che è vero, è che Foucault non ha paura di dislocare la filosofia, il suo lavoro filosofico, sul lato dei giornali e dei giornalisti, egli non teme di affrontare le buone e le più spesso cattive domande di questi ultimi, poiché egli sapeva bene che il giornale è un mezzo, per una filosofia che si riteneva responsabile dinnanzi all’attualità, per raggiungere il pubblico, un tramite necessario affinché un intervento filosofico prenda corpo, affinché la filosofia possa adempiere a una funzione pubblica mettendo da parte l’esoterismo. Questo rapporto con la stampa, Foucault lo stabilisce in un contesto in cui, in primo luogo, dopo il ’68, si produsse tutto un clima effervescente con l’apparizione di titoli nuovi e di un giornalismo non legato ad alcuna istanza politica, indipendente – Libération prima maniera era il segnavia di questo processo. Quando, ad esempio, egli si pronunciò a favore della «proliferazione dei media» in un’intervista con Christian Delacampagne, questo elogio non ha da esser visto come la celebrazione della grande stampa e della gloriosa figura del Giornalista! Di fatto, è in un effimero periodico di quell’epoca, L’Imprévu, che Foucault dice tutto il bene possibile del più rispettato dei giornali, Le Monde. Quando il giornalista de L’Imprévu gli chiede se questo giornale è «la sua bibbia», egli risponde con la fredda e caustica ironia che gli era propria: «Gli articoli di Le Monde, sempre ben informati, che avrebbero potuto esser scritti due mesi prima o quattro anni dopo. E poi, ad ogni modo, il giornalista che arriva a Manila, al Cairo o a Oslo si trova all’aeroporto e già il taxista gli dice una frase allo stesso tempo banale e folgorante, che gli sarà poi ripetuta in un discorso altamente solenne dal Ministro degli Affari Esteri… Ne seguono generalmente delle analisi molto, molto buone. Ma a quel punto, io provo a farle leggere a qualcun altro che mi sappia dire pressappoco di che si tratti». Questa breve satira non è esattamente identica a una celebrazione senza riserve dell’attivazione del «principio di pubblicità» attraverso il giornalismo, i giornali, presi indistintamente. Si osserverà nel passaggio prima citato la lucidità di Foucault sulle «prossimità» tra gli apparati politici e i dispositivi giornalistici – il giornalista e l’ambasciatore. Nel 1981, similmente, quando il generale Jaruselski proclamò lo stato di guerra in Polonia, egli intraprese una furiosa diatriba tanto contro Lionel Jospin, allora segretario del Parti Socialiste, quanto contro Jacques Fauvet, allora direttore di Le Monde, i quali, l’uno quanto l’altro, avevano apostrofato gli «intellettuali di sinistra» colpevoli, ai loro occhi, di mettere in pericolo con la loro agitazione a favore dei Polacchi la stabilità in Europa… Del resto, è vero che Foucault, che pensò spesso l’intervento filosofico e politico, o meglio, l’intervento politico della filosofia, in termini di battaglia, fece un uso tattico dei giornali abbastanza costantemente e coerentemente. Era il tempo perduto, oggi davvero perduto una volta per tutte, in cui, prima del 1981 e dell’arrivo al potere della Gauche, giornali come Le Nouvel Observateur potevano dare ampia risonanza alle campagne e alle azioni intraprese da Foucault e da altri contro la pena di morte, la condizione penitenziaria, la perizia psichiatrica, gli eccessi polizieschi, la ripresa del controllo sull’università («La trappola di Vincennes»), gli errori giudiziari, ecc. Quel che oggi talvolta si preferisce non vedere, è proprio il tratto fondamentalmente congiunturale di questo tipo di alleanza en pointillés che un Foucault o un Vidal-Naquet potevano stipulare con qualcuno come Jean Daniel, il direttore di Le Nouvel Observateur, in un clima, quello degli anni ’70, in cui gli spazi di critica si erano aperti in alcuni giornali, in un ambiente politico e culturale che portava anche il segno del maggio del ’68. Da questo punto di vista, il grido di protesta contro Fauvet, qualche mese dopo l’arrivo di Mitterand al potere, pronosticava qualcosa, era premonitorio: annunciava quel “peggio ancora” che Foucault non ha potuto vedere, la sparizione degli spazi di critica nella stampa sedicente «di sinistra» e la conseguente sparizione della «politica» di Foucault, con, per coronare il tutto, l’adesione massiccia dell’intelligentsia ex-critica alle condizioni dettate dallo Stato, dalla politica parlamentare e dalla politically correctness liberal-democratica. Si più misurare quanto sia cambiata la situazione rispetto a quel tempo in cui le grida di protesta e gli scoppi di riso nietzschiani di Foucault erano volentieri ospitati da una certa «grande stampa»… Per convincersene sarà sufficiente fare un esperimento – per esempio, provate a indirizzare a Le Nouvel Observateur odierno un gran bell’articolo di fattura foucaultiana sullo stato delle prigioni francesi – le cose sono alquanto peggiori dei tempi in cui Foucault fondò il G.I.P. – e poi aspettate! O meglio ancora, verificate se sia davvero materia da pubblicare tra le attuali colonne di Le Monde, e in relazione al terrorismo di oggi, un tipo di articolo e di petizione che Foucault diffuse a proposito dell’estradizione dell’avvocato della RAF, Klaus Croissant… Ma lasciamo queste minuzie, che altro non sono se non escrementi di mosca sul vestito da sposa, alle nozze del Giornalismo e della Democrazia. Filosoficamente, quello che non può essere né tollerato né sostenuto in certe letture contemporanee di Foucault, è il puro e semplice annullamento d’insieme del dispositivo genealogico che regge la sua analitica della modernità. Questo approccio che oppone costantemente il tema dei poteri a quello delle istituzioni, quello delle norme a quello del diritto e della legge, quello delle pratiche a quello delle rappresentazioni o della sensibilità, quello delle discipline a quello del progresso della democrazia, si dispiega in una situazione agonistica e conflittuale contro quel grande racconto della modernità che scandisce il progressismo alla Condorcet, il democratismo alla Tocqueville, il repubblicanesimo alla Quinet, lo storicismo alla Jaurès, ecc. Ciò che è peculiare dell’analitica foucaultiana della modernità è esattamente la sua capacità di articolarsi come l’«altro» radicale di questa apologetica della democrazia moderna, reiterata più di recente in Francia, nell’ambito della filosofia francese, da pensatori come Lefort o Gauchet e tutti gli epigoni arendtiani, pensatori con cui Foucault non ha mai, è il meno che si possa dire, avuto delle strette affinità. Quando Foucault scrive che le discipline sono il rovescio dei processi democratici, egli denuncia, implicitamente, tutta la miseria di una descrizione della modernità politica e sociale ridotta alle condizioni della «democratizzazione del mondo». Quando egli enuncia a più riprese che il Panopticon di Bentham è il gran modello politico delle società moderne, il sogno della borghesia, e quando vi scorge il grande modello analogico di tutti gli apparati di potere moderni, per l’esattezza, egli non piega la sua ricostruzione alle condizioni di questa specie di teodicea del-la Democrazia – e sono tutti usi questi che si prova talvolta ad attribuirgli. I combattimenti politici che li hanno mobilitati, negli anni ’70 (le prigioni, il potere giudiziario, la pena di morte, ecc.) non fanno in alcun modo appello all’apparato concettuale che sostiene abitualmente il progressismo democratico – i diritti, le libertà, la legittimità, la rappresentatività, ecc. – ma a tutt’altre nozioni, inerenti a una politica dello scarto, del passaggio al limite, persino del sollevamento – le resistenze, l’intollerabile, la plebe, i flussi, ecc. |